Un sapore di ruggine e ossa – Recensione
Dopo un capolavoro come Il profeta, il carico di aspettative nei confronti di Jacques Audiard non poteva che essere alto e porre il regista francese sotto il peso di una pressione non indifferente. Ma Audiard è un autore che si sa prendere il suo tempo, e soprattutto, si pone al servizio delle storie che racconta con un’onestà e gusto intellettuale, che gli consente di discostarsi da tutto quel manipolo di registi “fotocopia”, ansiosi di ripetersi con troppo superficialità.
Presentato in Concorso al sessantacinquesimo Festival di Cannes, Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os, il titolo originale), era tra i favoriti per la Palma d’oro (andata poi come sappiamo ad Amour di Michael Haneke), ma non ha mancato di fare incetta di consensi unanimi sia da parte della critica che del pubblico. Un cinema quello di Audiard carico di brutale verità che, ne Il profeta, raggiungeva valori di altissimo grado stilistico, e che trova qui una connotazione delicata e sensibile (vuoi per l’intrinseca differenza nel tema trattato), aiutata da un’ottima interpretazione degli attori protagonisti Matthias Schoenaerts e il Premio Oscar Marion Cotillard.
Ispirato ad una raccolta di racconti dal titolo Rust And Bone, dello scrittore statunitense Craig Davidson, il film racconta la storia d’amore fra Ali, un ex pugile con figlio a carico che fatica a trovare una stabilità economica, e Stèphanie, un’addestratrice di orche costretta su una sedia a rotelle (le vengono amputate entrambe le gambe) a causa di un grave incidente sul lavoro. Il loro è un rapporto fragile, costantemente sottoposto alle insidie di un equilibrio precario, ma talmente forte al suo interno da impedirgli di sgretolarsi.
La sobrietà con la quale il regista racconta quello che sulla carta potrebbe sembrare un polpettone melodrammatico, è disarmante a tal punto che le sequenze sono caratterizzate da una commozione contenuta e priva di artifici atti esclusivamente a far sgorgare le lacrime. C’è una profonda sensualità nelle scene d’amore, nelle quali i corpi nudi, così drammaticamente diversi (l’uno possente e vigoroso, l’altro fragile e menomato), ci vengono posti davanti agli occhi con profonda accortezza ma senza l’utilizzo di pudici filtri.
Il film non è solo i ritratto di due solitudini che si incontrano e che trovano forza dallo stare uniti, ma anche un’analisi più attenta sui disagi della nostra società, che costringe persone come Ali a tirare fuori una brutalità sopita in nome della sopravvivenza, e sottopongono i casi come Stèphanie ad una pesante ricerca della dignità. I due interpreti sono stati capaci, con arguzia, di capire la complessità dei loro personaggi, ed intendere quali potevano essere i limiti da non oltrepassare per non incappare nel melense e nello scontato, facendo invece un ottimo lavoro di sottrazione e levigatura.
Un talento quello di Audiard capace di far lavorare in tal senso i propri attori e farci assaporare un eccellente cinema, partendo si da una storia indubbiamente poco originale, ma non per questo meno significativa.
Serena Guidoni