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Tutti i santi giorni – Recensione

Una fiaba moderna che non “c’era una volta” ma accade Tutti i santi giorni a Roma in un piccolissimo appartamento con annesso giardinetto ad Acilia, periferia della capitale. Ecco il ritorno al cinema di Paolo Virzì che del film è anche sceneggiatore insieme a Francesco Bruni e Simone Lenzi, autore del romanzo “La generazione” a cui la pellicola è liberamente ispirata.
Il film racconta la storia d’amore tra Guido, timido e coltissimo ragazzo appassionato di lingue antiche, di santi e martiri protocristiani che si guadagna da vivere come portiere di notte di un hotel, e Antonia, irrequieta e permalosa, aspirante cantautrice siciliana impiegata in una società di autonoleggio. I due si incrociano tutti i santi giorni la mattina presto, quando Guido torna dal lavoro, sveglia Antonia con la colazione e finiscono per fare l’amore. Il loro legame sembra indistruttibile, finché, il pensiero ostinato di un figlio che non viene nonostante i ripetuti tentativi, mette in moto una serie di conseguenze imprevedibili.
Una coppia fatta di opposti che si attraggono, una coppia innamorata davvero, due giovani precari nel lavoro (come tanti) ma saldissimi nei sentimenti. Due giovani che abitano in periferie lontane dal lavoro per necessità (ancora come tanti), due ragazzi educati che condividono il vicinato con giovani coppie meno educate, un po’ cafone e con rumorosa prole al seguito. Ed ecco il punto nodale, i figli, i figli desiderati che poi non arrivano.
La parte centrale del film conserva i tratti della commedia di costume con tutto quel viavai tra ginecologi luminari vecchio stampo vicini alla Santa Sede e dottoresse moderne che lavorano in centri per la fecondazione assistita. E poi i contorni del tessuto urbano della periferia romana, un po’ triste nella sua omologazione, un po’ comica, a tratti violenta e disumana ma anche tenera e accogliente.
Ma, dopo la tristezza, il dolore, le lacrime, alla fine deve restare qualcosa di autentico, deve contare il sentimento forte che lega due persone. Deve pur esserci la felicità dove c’è amore. E’ come se il regista avesse ripreso in mano la parabola di alcuni suoi giovani protagonisti, il livornese dell’ormai lontano Ovosodo, il suo senso di inadeguatezza e le sue grandi speranze dell’adolescenza o il protagonista di My Name is Tanino che dalla natia Sicilia sognava l’America dei registi off di Hollywood, la terra delle possibilità e dei sogni, e li avesse ritrovati tanti anni dopo, a Roma, più maturi, con un rapporto sentimentale saldo e alle prese con il desidero di un figlio.
Il viaggio compiuto da Virzì ha fatto tappa in luoghi diversi ma così vicini ai sentimenti di chi li vive: il quartiere “ovosodo” di Livorno e le sue macchiette, i suoi cortili, i motorini degli adolescenti, l’America di Tanino picaresca, buffa, tenera e malinconica, e poi la periferia romana di questo film, meno deserta e isolata di quella dove sorgeva il mostruoso call-center del più recente Tutta la vita davanti. La Roma di questo film è autenticamente vera e racchiude in sé le diverse anime contraddittorie della capitale di oggi, quella tradizionale che si offre alla vista dei turisti, opulenta nella sua monumentalità e quella più autentica delle sue tante periferie.
E così quell’ovosodo che non andava né su né giù a Pietro, forse sta andando giù a Guido, che sembra aver preso coscienza che si può essere coltissimi e forse meritevoli di lavorare in prestigiose università ma si può anche essere sereni così, a vivere in una casetta in periferia e a fare il portiere di notte in un hotel godendo del silenzio delle ore notturne per leggere e gustare testi antichi.
Un cinema umano, gentile, semplice, mai urlato, come da tempo ci ha abituato Paolo Virzì che rinuncia ai toni più grotteschi e caricaturali per tornare a seguire con sincerità e affetto il percorso intimo dei suoi personaggi. Un Virzì felice di sottolineare, presentando il suo film, come questa sia prima di tutto una storia d’amore struggente, la storia di due persone in equilibrio tra tenerezza e ironia, in bilico tra desiderio e dolore, una storia, per un volta, lontana dagli stereotipi.
Felice è la scelta degli attori, anche questa volta due antidivi, il promettente Luca Marinelli (ammirato già in ruoli diversissimi ne La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo e ne L’ultimo terrestre di Gipi) e l’esordiente Federica Victoria Caiozzo, in arte Thony, songwriter siculo-polacca che il regista ha scovato su MySpace.

Elena Bartoni
 

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