Taken: la Vendetta – Recensione
Seguito di Taken (2008), approdato a suo tempo dalle nostre parti con il titolo Io vi troverò. Anche questo è prodotto e co-sceneggiato da Luc Besson. Avevamo assistito alle prodezze dell’ex agente CIA Bryan Mills, implacabile nello strappare sua figlia dalle mani di repellenti sequestratori (rigorosamente stranieri) mietendo fra i cattivi un cospicuo numero di vittime. Ora i parenti dei malvagi uccisi cercano sanguinosa vendetta, e lo rapiscono assieme alla moglie mentre si trova ad Instanbul con la famiglia. Ne esce fuori con l’aiuto della figlia, poi provvede a spazzare via i responsabili. Del primo Taken restava impressa la commistione di iperviolenza e razzismo becero, che nella seconda parte strabordavano sporcando ciò che di buono si era visto nella parte iniziale. Il sequel tiene formalmente le distanze da tanta scorrettezza politica, ma il profilo è più moderato soltanto in superficie. La brutalità permane, sia pur di un sadismo meno insistito, e sebbene la xenofobia di fondo sia meglio dissimulata (nell’altro il disprezzo era letteralmente detto in faccia) i nemici dalla pelle scura sono feccia vigliacca mossa da istinti animaleschi. Stessa minestra? Non esattamente. Pierre Morrel passa il testimone al connazionale Olivier Megaton, già regista di “Transporter 3” e “Colombiana”, provocando una decisa sterzata verso l’intrattenimento puro su scala iperbolica. Laddove lo scorso episodio non trascurava il versante psicologico ed il thriller, qui le sofferenze dei personaggi si fanno più artificiose ed il piatto della bilancia pende pesantemente dalla parte dell’azione. Montaggio sincopato, inseguimenti interminabili e tanta frenesia, mentre scarseggiano l’inventiva ed il senso della misura. Quanto alle frequenti forzature ed inverosimiglianze, serve ricordare che il pubblico in sala può accettare l’impossibile e non l’improbabile. Sulla prestazione di Liam Neeson, invece, va ribadito il giudizio positivo del capitolo precedente. Maturo ed invincibile come gli eroi di Steven Seagal, il suo Clyde è interpretato con una recitazione controllata eppure tutt’altro che inespressiva. Assai più umano e credibile, dunque, di quanto il grasso Steven saprà mai essere in ruoli analoghi. Dispiace vedere il suo talento sprecato in un cinema di consumo ripetitivo e dimenticabile.