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Argo – Recensione

Dopo l’Oscar alla migliore sceneggiatura originale vinto nel 1998 insieme al migliore amico Matt Damon per Will Hunting – Genio ribelle, con il film d’esordio alla regia Gone Baby Gone (2007), abbiamo potuto constatare che le sue ottime doti per quanto riguarda la scrittura non erano solo un fuoco di paglia. Tre anni dopo, le enormi aspettative all’uscita di The Town, sono state abbondantemente soddisfatte, ma con Argo, ultima ed imponente fatica, l’attore e regista Ben Affleck ha prodotto la conferma definitiva del suo indiscusso talento.

Il 4 novembre 1979, mentre la rivoluzione iraniana raggiungeva l’apice, un gruppo di militanti entra nell’Ambasciata USA in Tehran e porta via 52 ostaggi. In mezzo al caos, sei americani riescono a fuggire e si rifugiano a casa dell’Ambasciatore del Canada. Ben sapendo che si tratta solo di questione di tempo prima che i sei vangano rintracciati e molto probabilmente uccisi, Tony Mendez, un agente della CIA specialista in azioni d’infiltrazione, mette in piedi un piano rischioso per farli scappare dal paese. Un piano così inverosimile che potrebbe accadere solo nei film.

Il film sottopone lo spettatore a continui sbalzi di tensione. Dalle concitate primissime sequenze nelle quali assistiamo alla rivolta a Tehran e alla conseguente fuga dei sei, alle scene hollywoodiane quanto mai spassose ed ironiche dove due splendidi John Goodman ed Alan Arkin ci “guidano” nel dorato mondo della fabbrica dei sogni, per tornare a momenti al cardiopalma durante le operazioni di salvataggio, il tutto calibrato con sapienza e buon gusto senza mai eccedere sia nel pietismo che nella risata.

L’apparato tecnico del film, ricco di nomi eccellenti, a cominciare dalla fotografia anticata di Rodrigo Prieto (celebre collaboratore di Alejandro González Iñárritu) che, coadiuvata da una messinscena curatissima e dettagliata, da un montaggio “di genere” ad opera di William Goldenberg e le musiche minimaliste di Alexandre Desplat, ci portano negli anni Settanta con profonda verità storica.

Tratto dal libro-inchiesta di Joshuah Bearman, il film è una gustosa auto analisi sul cinema stesso, sui suoi meccanismi malsani ma nello stesso tempo affascinanti, ma anche uno sguardo ravvicinato, dall’interno, di coloro che rischiano la vita per la salvaguardia del proprio Paese. Un film profondamente “americano”, che ironizza su se stesso, mostra la propria verità e non si nasconde dal giudizio.
 

Serena Guidoni

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