Suspension of Disbelief – Recensione
CinemaXXI – In Concorso.
Supension of Disbelief ovvero la “sospensione dell’incredulità” cioè la volontà, da parte di un lettore nel caso di un’opera letteraria o di uno spettatore nel caso del cinema, di sospendere le proprie facoltà critiche al fine di ignorare le incongruenze e godere in pieno di un’opera di fantasia. L’espressione venne coniata nel lontano 1817 dallo scrittore inglese Samuel Taylor Coleridge.
In sintesi lo spettatore accetta i limiti dell’opera che sta guardando sacrificando realismo e talvolta anche logica e credibilità per il bene del divertimento.
Il regista inglese Mike Figgis (autore di quel Via da Las Vegas che aveva fatto ottenere un meritato Oscar a Nicolas Cage) fa sua questa espressione usandola come titolo del suo ultimo film presentato in concorso nella sezione CinemaXXI.
Fin dai primi minuti, Supension of Disbelief appare strutturato come una complessa ragnatela che alterna finzione e realtà, giochi di specchi e diversi piani temporali. Il regista piazza alcune tracce, uno sceneggiatore (anche insegnante), un film che si sta girando che scorre parallelo e che ha per protagonista sua figlia, una morte sospetta.
Martin sta scrivendo un film. Ma il processo della finzione nella finzione (all’inizio del film egli spiega ai suoi allievi come si costruisce una storia) va a colpire proprio lui. Martin si trova ben presto coinvolto nella morte della bella e misteriosa Angelique dopo la festa di compleanno della figlia Sarah. Poco dopo entra in scena Therese, la gemella della defunta che appare improvvisamente per scoprire cosa è successo alla sorella. Martin, Therese e Sarah finiranno per intrecciare le loro storie in una girandola di bugie e false rivelazioni che si intersecano col ricordo della moglie di Martin scomparsa anni prima.
L’apertura è forte, una frase di Carl Gustav Jung, poi una serie di giochetti visivi come lo schermo diviso a metà, le immagini sgranate, le grandi scritte che campeggiano a tutto schermo.
I riferimenti sono alti, forse troppo: Hitchock (La donna che visse due volte è evidentemente scimmiottata nel gioco delle gemelle Angelique e Therese) ma anche a De Palma e Lynch. E alla fine dei giochi il film risulta un esercizio di stile un po’ pretenzioso nel suo voler intrecciare, citare, mescolare diversi piani di realtà e finzione. La narrazione è troppo frammentata e ha un ritmo cadenzato a tratti noioso, la sceneggiatura manca di mordente e non fa nulla per evitare che lo spettatore inevitabilmente si smarrisca già a metà film. E così Figgis finisce per mancare il bersaglio non riflettendo sul tema del rapporto tra creazione e realtà ma scadendo in un manierismo fine a sé stesso anche se condito da qualche interessante intuizione visiva.
Gli attori regalano la giusta dose di fascino, il protagonista Sebastian Koch (che ricordiamo come interprete del bellissimo Le vite degli altri accanto a compianto Ulrich Mühe), l’ambigua e fascinosa Lotte Verbeek (nei doppi panni delle gemelle Angelique e Therese) e la sensuale Rebecca Night (nel ruolo della figlia del protagonista), ma da soli non bastano a reggere uno svolgimento troppo confuso e intricato.
Diciamoci la verità, il meta-cinema, o “film nel film” che dir si voglia, è un pretesto forse troppo abusato e così, a forza di moltiplicare e sdoppiare i piani del racconto, il film non riesce a evitare di impelagarsi in meccanismi inutilmente complessi che girano a vuoto rivelandosi giochini compiaciuti di un autore forse in cerca di rilancio. Eh si, questa volta Figgis è caduto davvero prigioniero della sua stessa ragnatela.
Elena Bartoni