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Nero Infinito – Recensione

Ritorno alle origini ed omaggio al cinema, Nero infinito, la pellicola del giovane regista catanese Giorgio Bruno, è il suo primo debutto alle regia di un lungometraggio. Il thriller è il genere scelto dall’autore ventisettenne.

La vicenda vede come protagonista due ispettori di polizia, Elena D’Aquino (Francesca Rettondini) e Valerio Costa (Rosario Petix) incaricati di indagare su una serie di omicidi che sembrano riprendere le modalità degli stessi, scritti nero su bianco nei libri della scrittrice Dora. Inizialmente i loro sospetti sembrano concentrarsi su di lei e sul suo editore, ma ben presto scopriranno che Leo, il barista della città, nasconde qualcosa.

Gli ingredienti per essere un buon poliziesco alla Montalbano di Camilleri o ricordando per un attimo la signora Fletcher di Angela Lansbury, Nero infinito, considerato un misto fra horror poliziesco e thriller, manca innanzitutto di suspense, elemento caratterizzante del genere, per non parlare poi di inverosimile narrazione e performances attoriali altrettanto deludenti.

Nonostante il film si concentri su un tema attuale come i femminicidi, in questo caso, con un serial killer la cui identità non tarda ad essere palese, il film pecca di attributi, annoia, anche se ce la mette tutta per dimostrare un briciolo di originalità e finisce con il disattendere le aspettative degli spettatori. In alcune scene poi, così come nell’affettata recitazione dei protagonisti, sembra voglia emulare il cinema d’oltreoceano.

La pellicola e il suo regista sembrano anche aver voluto strizzare l’occhio ad un cinema italiano e ad un genere anni ’70 ormai quasi del tutto dimenticato, quello dei commissari e degli assassini misteriosi, di film come quello del celebre regista di Profondo Rosso (1975), Dario Argento, che sono considerati dei B-Movie.

Se la celebre pellicola di uno dei maestri italiani del genere horror è chiamata di serie B, Nero infinito si può porre ad un livello ancor più basso, la sceneggiatura è ridotta al “minimo sindacabile”, i dialoghi sono anch’essi poveri e gli attori sono tutt’altro che naturali.

É premiato solamente lo sforzo e il coraggio del giovane regista, per aver cercato di mettere in scena un genere ormai caduto nel dimenticatoio, ma si sa che  non è sempre facile riuscire a riproporre un qualcosa con radice già profonde e rivisitarlo in chiave propria e moderna, ecco quindi che l’unico vero complimento riservato a Bruno è quello di averci provato.

Magari il prossimo lungometraggio sarà migliore, perché gli errori servono proprio per saper cosa migliorare.

Alice Bianco

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