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P.O.E. Poetry of Eerie – Recensione

Horror, prima di essere un genere cinematografico, è un genere letterario, uno dei più affermati, che nello scrittore Edgar Allan Poe ritrova le sue origini più celebri. É per questo che alcuni registi italiani del cinema indipendente, hanno deciso di rendergli omaggio.

Un lavoro collettivo quindi, con stili, tecniche e pensieri diversi per reinterpretare e riscrivere la poetica surreale e grottesca di un autore così famoso, che ha popolato sogni e incubi di intere generazioni, ispirato e influenzato romanzieri, pittori, musicisti e chi più ne ha più ne metta.

C’è da fare subito una considerazione sulla pellicola: ogni regista è partito da un’idea generale proveniente da uno dei racconti di Poe, essa poi poteva essere gestita in modo autonomo, senza necessariamente adattarsi al racconto da cui era stata tratta.

Premesso ciò, è utile indicare brevemente ognuno degli otto cortometraggi dei nove registi. I fratelli Angelo e Giuseppe Capasso con “Silenzio” hanno costruito un corto molto astratto, Alessandro Giordani con “La Sfinge”, ha dato vita ad un racconto post-apocalittico che si manifesta come incubo psicologico. Edo Tagliavini ha riletto in chiave ironica la tematica del “morto vivente” con la storia di “Valdemar”, Giovanni Piangiani e Bruno di Marcello hanno portato sullo schermo, in chiave grottesca, l’angosciosa e sanguinolenta storia di “Gordon Pym”.

Paolo Gaudio ha invece trasposto, in stile cartoon (stop motion) il racconto “Il gatto nero”, Paolo Fazzini e Domiziano Cristopharo hanno dato vita in chiave moderna rispettivamente a “L’uomo della folla” e “Il giocatore di scacchi di Maelzel”, ed infine l’ambientazione giapponese di “Canto” di Yumiko Sakura Itou, autrice fittizia (è lo stesso Cristopharo).

Tutti racconti rivisitati secondo le idee e le sensazioni dei 9 autori, in un miscuglio, che, tutto sommato, contando anche il budget ridotto, sanno stupire lo spettatore, facendogli dimenticare gli originari racconti dell’orrore di Poe.

L’unico piccolo difetto, su cui è facile cadere quando a comporre un documentario sono registi di diverso stile ed idee, è la poca armonia, la mancanza di un legame forte fra i vari corti. Essi infatti sembrano slegati, manca cioè una percezione unitaria e comune che li possa inglobare.

Gli stacchi ben visibili fra un corto e l’altro, così come il passaggio a volte repentino, altre volte ancora, troppo lento, rischiano così di destrutturare e spezzettare troppo la visione.

È comunque da riconoscere lo spirito d’iniziativa, l’inventiva e il coraggio che questi giovani autori hanno messo in campo, omaggiando il passato e dando una loro visione grottesca e surreale proprio come il maestro Poe.

Alice Bianco

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