Sotto Assedio – White House Down – Recensione
John Cale, giovane capitano di polizia in servizio come scorta allo Speaker della Casa Bianca, si reca al Palazzo Presidenziale con l’intenzione di entrare nei servizi segreti. Porta con se’ la figlia undicenne Emily, appassionata di politica statunitense, sperando di ricomporre i rapporti con lei dopo i troppi errori commessi da padre divorziato ed assente. Irrompe un gruppo di paramilitari terroristi, guidati da un traditore, i cui piani metteranno a repentaglio l’equilibrio in Medio Oriente ed il mondo intero. Sarà John a difendere il presidente, riscattandosi. Gli eventi si dipaneranno in un crescendo di catastrofismo enfatico, finchè col trascorrere dei minuti l’iperbole tracimerà all’insegna di un fanta-action sul filo della parodia. Detta così si potrebbe pensare ad un naufragio artistico e invece il film, con tutti i limiti della sua commercialità da fiera delle esplosioni, regge e diverte fino ai titoli di coda. Beninteso, Roland Emmerich è rimasto fondamentalmente il solito, inguaribile dispensatore di patriottismo, ottimismo e stereotipi assortiti. Qualunque critico ha gioco facile nel fustigare lo spreco di retorica sdolcinata, la caratterizzazione buonista del probo presidente di colore (i riferimenti a Obama non sono affatto casuali né superficiali) ed il ricorso al sentimentalismo per ammantare di angelica purezza i protagonisti positivi di stirpe americana. Una volta sopravvissuti alla melassa del prologo, dovremo tuttavia riconoscere che questo megaspettacolo senza vergogna è stato imbastito da vecchie volpi che sanno maledettamente il fatto loro. Emmerich e lo sceneggiatore James Vanderbilt portano avanti un discorso di fondo pacifista, assai delicato ed attuale, ma scelgono con accortezza di non prendersi mai troppo sul serio. Oltre a giovarsi di una regia d’assalto e dotata di lunghissimo respiro (non è da tutti mantenere costante il ritmo in oltre due ore di piombo, fuoco e vetri infranti), la vicenda è dunque pervasa da un sano humor peraltro non circoscritto alle battute disseminate nei dialoghi. In diversi momenti dove l’eccesso ed il paradosso fanno oggettivamente ridere, e sono tutt’altro che sporadici, compare un retrogusto di comicità concepito per controbilanciare il ridicolo involontario su cui si è in bilico. E, dettaglio non trascurabile, per una volta l’impegno nel suscitare domande nello spettatore assume maggiore importanza rispetto alla propaganda spinta. Si tratta sempre di spudorato incensamento dei valori yankee, certo, ma è oro colato se confrontato al becero (e serioso) semplicismo di “Taken” e simili. Chi è allergico al genere ne stia alla larga.