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Juliette – Recensione

Esordio alla regia per il 24enne francese Pierre Godeau che porta a Roma il suo “Juliette” presentando la sua personale visione della giovinezza sullo sfondo del tracollo europeo.

La storia è molto semplice: Juliette (Astrid Bergès-Frisbey) racconta la storia di una giovane ragazza che continua a procrastinare il momento in cui dovrà fare una scelta nella vita.

L’Europa della nuova onda promossa da questi giovani registi, è uno stato dove si fatica a trovare la felicità, dove la crisi ha lasciato un solco talmente profondo che si rispecchia anche nella vita di chi ha tutta l’esistenza davanti, come Juliette.

In un mondo dove ogni giovane, ma anche ogni essere umano in generale, ha in pochi secondi accesso a tutto grazie alla tecnologia, ci si sente ancora più ingabbiati, senza strade e soffocati dalla crisi che sembra distruggere tutte le speranze.

Juliette, nonostante rappresenti in ogni caso una società che ha ancora voglia di viaggiare con la fantasia e combattere per i propri sogni, rappresenta anche quelli che in Italia vengono chiamati “bamboccioni”. Ragazzi che continuano a vivere con la propria famiglia, che hanno il terrore di affrontare la parola “adulti”.

Sullo sfondo della crisi economica, il film di Godeau si radica profondamente in quel generale malessere che ancora si fatica a definire, dove tutto fatica a trovare dei contorni definiti, dove tutto è vago. E così Juliette vaga nella sua cittadina francese come faceva Niko in “Oh Boy – Un caffè a Berlino” con una differenza sostanziale.
Mentre il personaggio di Tom Schilling girava con un peso sul cuore della solitudine e della paura di non riuscire a trovare uno scopo nella sua esistenza, Juliette fa parte di quei giovani che preferiscono voltarsi dall’altra parte, alzare le spalle, perché tanto in questa situazione di crisi non c’è altro da fare.

Juliette è una ragazza come tanti, resa spoglia dalla mancanza di trucco e dai capelli difficilmente pettinati che tenta in tutti i modi di avvinarsi al suo pubblico creando così una facile empatia. Difficile quindi non provare simpatia per lei, che diventerà un simbolo per le nuove generazioni costrette a vivere in questa società piena d’incertezze.

Nonostante questo però la sceneggiatura fatica a trovare una base solida su cui poggiarsi e sembra girare su se stessa, senza apportare nulla di nuovo né al cinema, se non dal punto di vista dello specchio del mondo di oggi, né ai suoi personaggi che non compiono nessun percorso formativo o subiscono cambiamenti.

Sara Prian

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