Seventh Code – Recensione
Il regista giapponese Kiyoshi Kurosawa arriva al Festival di Roma in concorso con Seventh Code (Sebunsu Kodo) piccolo (dura solo 60 minuti) film di genere, una sorta di thriller spionistico dall’ambientazione atipica.
La storia si svolge nella città russa di Vladivostok dove la giovane Akiko (Atsuko Maeda) arriva da Tokyo in cerca del giovane imprenditore Matsunaga, conosciuto a una cena e mai dimenticato. Lo ritrova ma il giovane non ne vuole sapere di lei, le consiglia di non fidarsi di nessuno in un paese straniero e la lascia da sola in un bar dopo averle offerto da bere. Quando Akiko tenta di rintracciarlo seguendolo in un misterioso edificio, viene sequestrata da alcuni membri della mafia locale dai quali verrà abbandonata, senza soldi né documenti, in un luogo isolato. Liberatasi, vaga per la periferia della città finche trova riparo da un ristoratore giapponese e dalla sua aiutante cinese. Ma il suo pensiero fisso è rintracciare Matsunaga i cui affari loschi nascondono un traffico di materiale nucleare.
Una ragazza con una valigia in un paese straniero, un chiodo fisso (rintracciare un uomo con cui è uscita una sola volta), un tipo misterioso, e poi, mano a mano, come un magma nascosto, traffici illegali che svelano false identità.
Il film accumula misteri nascosti dietro a legami criminali russo-nipponici e procede per rivelazioni fino a una sorprendente esplosione finale. In mezzo, la filosofia del denaro che vuol dire soprattutto potere e perfino un inaspettato inserto cantato.
Il regista nipponico Kiyoshi Kurosawa (autore fra l’altro del thriller metafisico Cure del 1997) ci riprova, confezionando una specie di spy thriller di buona fattura ma non memorabile e che evidenzia la sua propensione per un cinema dal forte sapore “nero”. Il film è pieno di misteri, a partire dal titolo, Seventh Code, che trova spiegazione solo nella canzone cantata dalla protagonista nel finale.
Dal punto di vista stilistico, non mancano gli elementi tipici dell’opera del regista, come la predilezione per interni cupi fotografati con grande maestria e cura e l’uso di campi lunghi (o anche lunghissimi) che inquadrano momenti importanti dell’azione. I temi cari a Kurosawa tornano qui prepotentemente, in primis la solitudine e i fallimenti (non solo della protagonista ma di quasi tutti i personaggi) e la mancanza di contatti umani e affettivi sostituiti da rapporti in cui a dominare è unicamente la violenza. La suggestiva e simbolica deflagrazione finale, ripresa in campo lungo, è la personalissima firma apposta dal regista alla sua storiella nera.
Alla proiezione è stato abbinato il corto CinemaXXI Beautiful New Bay Area Project, circa 30 minuti di confronti (più che altro scazzottate) tra l’inetto e giovane erede di un gruppo edilizio e un’operaia che sta lavorando a un complesso in attesa di distruzione e riedificazione. Questo si davvero evitabile.
Elena Bartoni