Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon – Recensione
Sequel di “Detective Dee e il mistero della Fiamma Fantasma” (2010), è il secondo lungometraggio in 3D nella carriera del grande Tsuji Hark. Nell’anno 633 il giovane Dee si reca nella capitale imperiale cinese per diventare magistrato. Si troverà ad indagare su un misterioso mostro marino e su un subdolo complotto contro la casta imperiale. Giallo, azione ed avventura, più un pizzico di fantasy. Quest’ultimo ingrediente, a dire il vero, balza in primo piano solo nelle battute conclusive, ed è incorporato in maniera abbastanza repentina. D’altronde il plot ha importanza solo fino a un certo punto, trattandosi di un mero veicolo per una pioggia di stimoli sensoriali indirizzati al nervo ottico. Motore di tale veicolo è appunto la terza dimensione, attraverso la quale Hark si serve di un linguaggio filmico “espanso” talmente vincolato alla visione stereoscopica da rendere inevitabilmente monca qualsiasi eventuale fruizione in 2D. Quando la profondità di campo si prolunga l’immagine richiama il teatro di ombre a sfondi sovrapposti; quando la prospettiva viene estesa in avanti proietta oltre la quarta parete il virtuosismo travolgente di combattimenti coreografati con maestria. Potremmo continuare elencando finezze come la visualizzazione del processo deduttivo tramite flashback, che rimanda allo Sherlock Holmes di Guy Ritchie. A questo punto verrebbe spontaneo liquidare l’indagine (non facilissima da seguire) e la storia d’amore (di scarso interesse) in quanto fastidiosa zavorra. E qui stanno le note dolenti. Perché in tanta ridondanza trafelata, in bilico sul barocchismo, lo spettacolo finisce con l’essere inversamente proporzionale al divertimento e all’emozione. Ammesso che in un certo cinema di Hong Kong il procurare stupore ha la priorità sul coinvolgimento emotivo, qui i personaggi sono fin troppo sacrificati all’esercizio di stile. Si trepida ben poco per quel che vediamo accadere, e anche i validi spunti ironici sembrano soffocati dalla fretta. Una spiegazione può essere il nome del paese produttore: la Cina continentale. Quanto la sua recente politica produttiva, spesso caratterizzata da grandi mezzi e cuore latitante, finirà per imbrigliare il lavoro dei cineasti di scuola hongkonghese? Viene inoltre da chiedersi quanto una commercialità di questo genere possa far presa su uno spettatore occidentale. Sfiancante.