Il Terzo Tempo – Recensione
Vincitore del Premio Francesco Pasinetti (SNGCI) al recente Festival del Cinema di Venezia e aggiudicatosi il Premio Uk – Italy Creative Industries Award – Best Innovative Budget, Il terzo tempo del regista esordiente Enrico Maria Artale, non è il classico film sportivo, è molto di più, una pellicola di formazione che mette in scena la passione e la voglia di riscatto.
Samuel (Lorenzo Richelmy) è un adolescente problematico, sua madre è tossicodipendente e suo padre non l’ha mai conosciuto. Gli ultimi anni della sua vita li ha passati in riformatorio dopo aver commesso numerosi reati. Dopo l’ennesima pena, viene inserito in un programma di riabilitazione: ottiene la semilibertà e inizia a lavorare in un’azienda agricola della provincia romana. Il suo supervisore è Vincenzo (Stefano Cassetti), un assistente sociale che, dopo la morte della moglie, fatica a ritrovare un proprio equilibrio. Il rapporto tra Samuel e Vincenzo si rivela difficile, ma avvicinato dall’assistente sociale al rugby, il minorenne sarà costretto a partecipare: o quello o il carcere.
La storia di Samuel è simile a tante altre, in Italia e nel mondo, un’esistenza priva di punti di riferimento, di valori e di rispetto, virtù che il ragazzo appena uscito dal riformatorio pian piano inizia ad acquistare: con fatica capirà che il rugby può rappresentare per lui la base su cui costruire o meglio, ricostruire la propria vita.
Film corale, Il terzo tempo mette in primo piano proprio l’essere squadra, i valori come la fratellanza, l’amore e la passione per uno sport.
Nel rugby il cosiddetto “terzo tempo” è la fase in cui le due squadre si riuniscono dopo un incontro per festeggiare o cenare assieme alla famiglia e ai tifosi. Ecco quindi il saper imparare a condividere le vittorie, così come la sconfitte, gioire e trascorrere insieme il dopo gara, accantonando “l’io”.
Il terzo tempo del film però, oltre a questo, rappresenta anche una vera e propria metafora di vita: giocare, seguendo la disciplina e facendo dei sacrifici, dà la possibilità a Samuel di redimersi, di dimostrare le sue qualità ed approfittando di questa opportunità, ricominciare.
La pellicola ricorda molto il film inglese di Tony Richardson, Gioventù, amore e rabbia (1962) tratto dal libro di Alan Stillitoe La solitudine del maratoneta: il personaggio stesso di Samuel è simile a quello inglese di Colin, entrambi trovano nello sport la chiave di volta, la possibilità di costruirsi un nuovo futuro e dimostrare quanto valgono.
Brillante esordio quello di Enrico Maria Artale, neo diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia, buono l’uso della macchina da presa, così come la struttura narrativa (sceneggiatura di Francesco Cenni e Luca Giordano), che sebbene sia dotata di elementi già visti, riesce ad incorporare una propria originalità.
Buono anche l’esordio del giovane cast e dell’ormai affermata Stefania Rocca, per un film che coinvolge in modo efficace ed emotivamente lo spettatore, regalando interpretazioni naturali e sofferte, ben sottolineate dai primi piani di un attento regista, che ha voluto rendere i sentimenti e le sensazioni dei veri e propri protagonisti.
Alice Bianco