Oldboy – Recensione
Oldboy, una lurida leggenda, prima a fumetti poi sul grande schermo. Una storia che divenne un fumetto manga in otto volumi alla fine degli anni ‘90 in mano ai talenti creativi di Garon Tsuchiya e Nobuaki Minegishi e che nel 2003 diventò un film diretto dal regista coreano Park Chan Wook. La pellicola fulminò il Festival di Cannes dell’anno seguente vincendo il Gran Prix della Giuria.
Un prigioniero misteriosamente rinchiuso per vent’anni, una liberazione altrettanto misteriosa, una caccia senza tregua. Ma soprattutto una difficile sfida anche per un regista di peso come Spike Lee che ha deciso di portare di nuovo sullo schermo la storia di Oldboy.
L’eredità di una pellicola divenuta presto ‘di culto’, apprezzata per una struttura elegante, esplosiva e poetica (seppur nerissima) allo stesso tempo, che raccontava una discesa agli inferi in un vortice morale di grande resa emotiva, era un fardello pesante, almeno in partenza. La condizione di prigionia, fisica e mentale, vissuta da un uomo che ignora il suo destino chiuso in uno strano motel e che ha come unico compagno un televisione per venti lunghi anni, contiene una serie di suggestioni che non fanno che aumentare con una liberazione altrettanto improvvisa e misteriosa che porta con sé un tormento in apparenza senza fine.
La storia che racconta Oldboy è proprio questa. Nel 1993 Joe Doucett (Josh Brolin) è un pubblicitario in declino e un padre assente per sua figlia. Una notte, ubriaco, viene misteriosamente rapito e rinchiuso in isolamento in una stanza che diventa la sua prigione per venti lunghi anni. Un periodo che passa senza alcun indizio sull’identità e sul movente del suo rapitore. Inspiegabilmente liberato, Joe torna alla sua vita con una sola ossessione: scoprire chi ha orchestrato la sua prigionia e capirne il perché. Anche se ora è libero, continua a sentirsi perseguitato. La ricerca alle sue risposte lo porta a incontrare una giovane assistente sociale (Elizabeth Olsen) e un uomo sfuggente, Adrian (Sharlto Copley), che possiede la chiave sulla verità della sua liberazione.
Lasciando da parte l’idea di un vero e proprio remake del film di Chan Wook, Lee ha dichiarato di aver immaginato fin dal principio la storia a modo suo, facendo un passo indietro rispetto alla pellicola coreana e rifacendosi alla storia originale, ispirato dalla rilettura operata dallo sceneggiatore Mark Protosevich sulla base del manga di partenza. Una vera nuova interpretazione di una grande storia che può essere rappresentata in tanti modi diversi. Il soggetto e le tematiche, trasferiti in terra americana, hanno prodotto un film sulla vendetta si, ma anche una storia di redenzione e delle sue complesse implicazioni.
Famiglia, crudeltà, dolore e infine la vendetta e il prezzo da pagare in nome di essa.
Contenuti importanti e uno stile registico intrigante e di grande tenuta drammatica fanno di Oldboy un film teso, violento, struggente, implacabile, che si distanzia doverosamente da un precedente pieno di elementi visionari, abbandonati qui in favore di una messinscena da thriller-action ben resa dallo stile viscerale del geniale direttore della fotografia Sean Bobbitt (collaboratore di Steve McQueen in film dalle atmosfere uniche come Hunger e Shame).
Un prigioniero non processato, non giudicato da alcuna giuria, non accusato di un crimine specifico, ma tenuto in isolamento, costretto in uno spazio claustrofobico a confrontarsi con sé stesso, i fantasmi della sua mente sconvolta e a guardare il mondo soltanto attraverso lo schermo di una TV (la stessa televisione che sarà un elemento chiave nella risoluzione finale).
Il film si regge sulla grande prova interpretativa di Josh Brolin che, dopo le già convincenti prove offerte in Non è un paese per vecchi, W. e Milk, conferma di essere uno dei maggiori talenti della sua generazione. Il suo Joe Doucett è capace di ‘agire’ con il corpo e con la mente, interrogandosi e ricercando dentro di sé le ragioni di una vendetta ma anche di espiare e fare ammenda.
Quello che rende il film di Spike Lee riuscito è proprio il finale in cui risiedono le maggiori differenze rispetto alla pellicola di Park Chan Wook. Lasciando la strada del suo predecessore coreano che aveva scelto un epilogo volutamente sospeso, Lee opta per una chiusura del cerchio intrisa di contenuti etici e drammi morali che si risolve in una scelta precisa del protagonista.
E il messaggio finale arriva dritto al cuore: sopravvivere a un trauma e a sentimenti come l’orrore, il dolore, il rimorso, vuol dire innanzitutto non dimenticare. Già, non dimenticare per vivere ancora.
Elena Bartoni