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The Butler – Un maggiordomo alla Casa Bianca – Recensione

Un maggiordomo perfetto, cortese e silenzioso, ha servito thè e biscotti nella Sala Ovale sapendo rendere la sua presenza invisibile, è stato al servizio di ben otto Presidenti degli Sati Uniti dal 1957 al 1986. Il suo nome era Eugene Allen, a lui il giornalista Wil Haygood dedicò un articolo, “A Butler Well Served by This Election”, uscito nel 2008 sul Washington Post. Di questo prezzo vennero acquistati i diritti per farne un film, The Butler (sottotitolo italiano Un maggiordomo alla Casa Bianca) la cui regia è stata affidata a Lee Daniels.
La vicenda trasferita sul grande schermo cambia il nome del protagonista in Cecil Gaines (Forest Whitaker). Il film si apre nel 1926 quando Cecil, ancora bambino, vede uccidere il padre per mano del suo datore di lavoro mentre lavora come schiavo nei campi di cotone in Georgia. Subito dopo, sotto la guida della bianca matriarca della piantagione, Cecil viene mandato a lavorare in casa dove impara a svolgere le mansioni di un perfetto domestico. Una volta fuori dalla piantagione, lavora prima in un piccolo hotel, poi in un albergo di lusso a Washington D.C. dove viene notato da un funzionario della Casa Bianca che gli offre un lavoro come maggiordomo al 1600 di Pennsylvania Avenue. Qui Cecil lavora per circa trent’anni, assicurando alla moglie Gloria e ai figli Louis e Charlie, un’agiata vita borghese. Ma, col passare degli anni, l’impegno e la dedizione di Cecil nei confronti della sua “First Family” sono causa di tensioni nella sua vita familiare, causano l’allontanamento di Gloria e inaspriscono il confronto con il figlio Louis che è contrario al sistema e decide di prendere parte attiva al movimento per i diritti civili dei neri negli anni ’60 e ’70.
Il film di Daniels è una lunga parabola che segue i cambiamenti della scena politica americana e delle relazioni razziali: dall’assassinio di John F. Kennedy a quello di Martin Luther King, dai movimenti dei Freedom Riders e delle Black Panter, alla guerra del Vietnam e allo scandalo Watergate. Eventi della grande storia che si ripercuotono sulla storia privata di Cecil Gaines.
Un uomo-emblema, un lavoratore che è stato al servizio di tanti Presidenti diversi, testimone dei movimenti per i diritti civili da dietro le quinte, un uomo perfetto per il giornalista Wil Haygood che nel 2008, durante le settimane precedenti la storica elezione di Barack Obama, cercava un afroamericano che avesse lavorato alla Casa Bianca negli anni della segregazione razziale cui dedicare un articolo. Da lì lo spunto per la storia, riscritta dallo sceneggiatore Danny Strong (lo stesso che sta lavorando al finale della trilogia di Hunger Games che sarà diviso in due parti).
Il forte dualismo che divide le posizioni di un padre, che ripudia un figlio contestatore continuando a servire silenziosamente i Presidenti, e quelle di un giovane che non accetta lo status quo, percorre come un fil rouge tutto il film. Seguendo la lunga storia dell’ex schiavo nelle piantagioni di cotone che arriva a essere (ormai in pensione) il testimone della storica elezione di Obama a Presidente degli Stati Uniti, The Butler ripercorre le vicissitudini della storia dell’integrazione razziale attraverso le tappe fondamentali della storia americana.
Portando sul grande schermo una vicenda che intreccia pubblico e privato sullo sfondo di eventi e figure di grande portata storica, Daniels non poteva prescindere dal forte richiamo al suo precedente Precious, continuando sulla strada di revisione critica della storia del suo paese.
Il film è un grande affresco di decenni importanti per una Nazione colta nel suo perenne scontro tra ricorso alle armi e fiducia nella potenza delle parole. Attraverso il suo maggiordomo nero, Daniels ripercorre anni cruciali e Presidenti importanti (nel bene e nel male) come Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Reagan, colti nel loro volto pubblico ma anche in particolari aspetti del loro privato.
Un protagonista in stato di grazia (un Forest Whitaker intenso e ispirato) e un cast stellare di contorno, da una sorprendente Oprah Winfrey nei panni della consorte Gloria, alla popstar Lenny Kravitz e al bravissimo Cuba Gooding jr., fino ai Presidenti cui offrono il volto star come Robin Williams, John Cusack, Liev Scheiber, Alan Rickman, completano il quadro.
Ma, al di là del cast prestigioso e dell’ottima prova di Whitaker, al di là degli edificanti messaggi disseminati per tutte le due ore di durata, il film resta prigioniero della sua stessa grandiosità retorica e si impantana nelle sabbie mobili di un didascalismo eccessivo. Il risultato è un vero “polpettone” di lusso, infarcito di grandi ideali sull’intolleranza e la segregazione razziale, e chiuso dall’inevitabile e fin troppo facile effetto commozione di quello storico “Yes, We Can”.

Elena Bartoni
 

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