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C’era una volta a New York – Recensione

Il titolo italiano (siamo lontani da Sergio Leone e da C’era una volta in America) non deve ingannare, l’originale The Immigrant dice già tutto, o quasi.
Siamo nel 1921, quando dall’Europa salpavano grandi navi cariche di persone disperate in cerca di fortuna nel nuovo continente, siamo insomma dalle parti del sogno americano.
Ewa Cybulski (Marion Cotillard), giovane polacca in fuga verso New York sperando nell’aiuto di una zia che si è sistemata a Brooklyn, è una di queste. Arrivata a Ellis Island insieme alla sorella Magda, malata di tubercolosi, la donna viene bloccata e le viene negato l’ingresso nel Paese mentre la sorella viene relegata in quarantena. Ad aiutare la ragazza, fermata insieme ad altre decine di immigrati, interviene un uomo elegante e dai modi apparentemente gentili, Bruno Weiss (Joaquin Phoenix). L’uomo le offre un alloggio e un lavoro come sarta ma ben presto Ewa capisce che Bruno gestisce un giro di ragazze che fa esibire in squallidi spettacoli in un teatrino di terz’ordine per poi farle prostituire. Anche Ewa viene trascinata nel locale e indotta a prostituirsi. Un giorno la ragazza conosce per caso Orlando (Jeremy Renner), illusionista e cugino di Bruno, che le ridona speranza per un futuro migliore. Ma la giovane donna deve fare i conti con la gelosia di Bruno.
Ancora una storia che affonda le sue radici nel vissuto personale del regista che proviene da una famiglia di ebrei russi emigrati (a cui il giovane Gray nel 1994 aveva dedicato il suo film d’esordio, Little Odessa Leone d’Argento e Coppa Volpi a Vanessa Redgrave a Venezia). In particolare la storia di C’era una volta a New York proviene dai racconti che il regista ascoltava dai suoi nonni (giunti dalla Russia nel 1923 negli Stati Uniti passando per Ellis Island).
In primis quindi, la suggestione di un luogo visitato da James Gray per la prima volta nel 1988, prima che l’isola venisse risistemata. Gli occhi del regista vennero colpiti dall’immagine spettrale del posto, dove per terra ancora giacevano frammenti dei moduli per l’immigrazione compilati a metà. La sensazione che quel luogo fosse abitato dai fantasmi della sua famiglia fu forte.
Inoltre il bisnonno del regista gestiva un ristorante nel Lower East Side e conosceva diversi loschi individui. Dopo essersi documentato, Gray ha raccontato di aver scoperto un uomo chiamato Max Hochstim, una sorta di magnaccia locale. Mettendo insieme questi tasselli, è arrivato alla storia di Bruno che nel film, proprio ad Ellis Island, recluta per il suo ‘harem’ donne che non venivano ammesse negli Stati Uniti. La storia di quest’uomo, unita ai ricordi dell’estraneità provata dai suoi nonni provenienti dall’Est Europa, ha composto il quadro d’insieme. Qui la protagonista non è un’ebrea russa ma una polacca cattolica, un’estranea nel Lower East Side popolato da immigrati ebrei, una donna senza nessuna possibilità di integrazione, vittima e padrona del suo destino.
Molteplici le fonti d’ispirazione ammesse dal regista, in testa a tutte l’opera di Puccini Suor Angelica (vista da Gray a Los Angeles per la regia di William Friedkin). Ma non solo, Il Diario di un curato di campagna di Robert Bresson è uno dei principali debiti dichiarati per l’atmosfera generale (ma siamo lontani dalla sobrietà espressiva del maestro francese) e per alcune scene (come quella della confessione). Il viso della Cotillard, ritenuto dal regista in alcune scene nientemeno che simile a quello dell’attrice Renée Falconetti nel capolavoro di Dreyer La passione di Giovanna D’Arco, dovrebbe contribuire a comporre il clima giusto. E qui si vola alto, o almeno ci si prova.
Una cosa è certa, i legami familiari, i vincoli di sangue con le loro rivalità e i loro amori difficili (se non impossibili) sono il filo rosso che lega molte delle opere di Gray, qui alla sua quinta regia. Anche questa volta il dramma ruota attorno due nodi parentali forti: il grande amore di Ewa per una sorella malata e per le cui cure arriva a umiliarsi e prostituirsi, e la rivalità e gelosia di Bruno per suo cugino Orlando anche lui affascinato da Ewa.
Ma il rischio scivolone nel melodrammone lacrimoso è forte, nonostante il film sia avvolto in atmosfere visivamente affascinanti, complice la bellissima fotografia di ‘sua maestà’ Darius Khondji che ha lavorato con Gray sulle vere fotografie dei primi del Novecento per raggiungere la perfetta densità di colore nelle inquadrature.
Nulla da eccepire sugli attori, a cominciare da un’intensa Cotillard calata nei panni della dolente Ewa, per proseguire con Joaquin Phoenix (attore-feticcio di Gray, che lo ha voluto in quattro dei suoi cinque film) capace di restituire alla perfezione i tormenti di un individuo manipolatore, sfuggente e mutevole, “predatore” ma anche “preda” di un (contorto) sentimento d’amore, e per finire con un Jeremy Renner illusionista dotato di sensibilità e leggerezza ma con una vocazione all’autodistruzione.
Alla fine però il film resta intrappolato nella sua volontà di mettere in scena un percorso di catarsi, una strada verso la purificazione di una donna, ma anche di un uomo che da vessatore diviene salvatore, e il tentativo di usare la classica forma del melodramma per arrivare a comunicare un messaggio di speranza si perde nel lento scorrere delle lacrime sul viso della sua protagonista.

Elena Bartoni
 

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