A proposito di Davis – Recensione
Un altro eroe perdente, affascinante e indimenticabile, malinconico e a tratti rude, destinato a diventare una nuova icona nella galleria di personaggi usciti dalla geniale fantasia dei fratelli Coen, come il Drugo de Il grande Lebowski, Ed Crane de L’uomo che non c’era o Larry Gopnik di A Serious Man. Questo nuovo eroe stropicciato (negli abiti e nell’animo) si chiama Llewyn Davis e sogna di sfondare come cantante folk nella New York del 1961.
A proposito di Davis (in originale il ben più significativo Inside Llewyn Davis) racconta una settimana nella vita di questo giovane cantante folk che cerca con fatica di farsi strada nel mondo musicale del Greenwich Village dell’inizio anni Sessanta. Llewyn Davis (Oscar Isaac), con la sua chitarra al seguito e stretto nella sua giacca di velluto beige per difendersi dall’ inverno newyorchese, è un animo tormentato che si arrangia a suonare nel club cercando di farsi strada come solista dopo il suicidio del suo partner musicale, Mike Timlin. Non ha un appartamento, né soldi per pagarsene uno, dorme sui divani di chi capita affidandosi alla generosità di amici e sconosciuti, arrabattandosi con lavori qualsiasi. Passando dai caffè newyorchesi, dove cerca di guadagnare qualche spicciolo, fino al tentativo di ottenere un’audizione con un potente impresario musicale in un club di Chicago, Llewyn vive un’assurda odissea che termina di nuovo a New York.
Un viaggio, reale e metaforico, un’avventura, musicale e non, una suggestione ricca di citazioni cinefile. Da sempre affascinati dalla musica del cosiddetto “folk revival” della fine degli anni ’50 (sonorità e canzoni che avevano già omaggiato in Fratello, dove sei?) e dalla vivace scena del Village prima che Bob Dylan vi facesse la sua comparsa, i fratelli Coen sono partiti da un libro, Manhattan Folk Story (in originale The Mayor of MacDougal Street), biografia del musicista folk Dave Van Ronk (scritta insieme al giornalista Elijah Wald) incentrata proprio su quegli anni. I due fratelli registi hanno approfondito non solo la storia di Van Ronk ma anche di tutta quell’epoca costruendoci sopra una suggestiva storia di finzione su un cantante immerso in quel mondo. La storia di Van Ronk è un pretesto per parlare di un momento di transizione cruciale prima dell’arrivo degli anni ’60 ma Llewyn non è Van Ronk anche se canta alcune sue canzoni e ne condivide il background di ragazzo della classe operaia diviso tra musica e lavori occasionali su navi mercantili oltre che l’amore per la musica folk autentica, uno stile creato dalla classe lavoratrice e trasmesso da un artista all’altro.
Sulla New York capitale del folk, sull’ambiente dei locali del Greenwich Village da cui sono usciti talenti come quello di Dylan che avrebbero rivoluzionato il mondo della musica, molto si sa, ma molto meno si conosce della New York del periodo immediatamente precedente quando la musica folk non ha ancora grande seguito e i tanti ragazzi che la suonano sono ancora in cerca di una loro collocazione. Ecco il punto, un giovane uomo in cerca della propria dimensione, un novello Ulisse che intraprende la sua personale odissea.
A detta dei due geniali fratelli registi, il punto di partenza è stata una scena, solo una scena, un cantante folk che viene picchiato nel vicolo dietro a un locale. Da lì l’invenzione, la costruzione di un personaggio e del suo mondo in una storia esemplarmente costruita su una struttura perfettamente circolare. Ma la vicenda, in maniera tipicamente coeniana, è un pretesto per qualcosa di più, un inno all’arte: della musica certamente, ma anche del cinema.
Alla ricostruzione storicamente perfetta di un mondo e di un ambiente musicale (fatta con l’essenziale apporto di quel T Bone Burnett che ha già collaborato con i Coen come produttore esecutivo musicale in Fratello dove sei?) corrisponde un sentito omaggio al cinema come alta forma d’arte. Non a caso il 1961, è un anno importante anche per la settima arte, essendo l’anno di un capolavoro come Colazione da Tiffany qui omaggiato con la presenza forte del gatto senza nome (almeno fino alla fine, quando la rivelazione del nome del felino è uno dei tanti colpi da maestro disseminati per il film), vera presenza circolare della pellicola, destinata a far sentire il protagonista ancora più perdente. Ed è proprio sul senso di sconfitta che si arrotola la struttura del film, sul delicato crinale che divide il successo dall’insuccesso, rivestito ancora della tipica ironia tagliente e sempre più nera dei Coen. La presenza forte del caso, del destino, puntella il viaggio di Llewyn (uno straordinario Oscar Isaac) portandolo a compiere sempre, inesorabilmente, scelte sbagliate. Un percorso fatto di sconfitte in cui è accompagnato da una galleria di personaggi eccentrici o enigmatici, frutto di un amalgama tra suggestioni provenienti da personaggi realmente esistiti e figure di fantasia, interpretati da un gruppo di attori eccezionali, dal duo musicale (e non) composto da Carey Mulligan e Justin Timberlake (bellissima la loro esibizione), al musicista-cantante jazz cui offre il volto e il corpo massiccio John Goodman, al potente manager musicale F. Murray Abraham.
Un grande film, poetico, struggente, sottilmente ironico, maggiormente intimo e più sentito (Inside Llewyn Davis) rispetto alle altre opere dei Coen, meritatissimo Gran Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes.
Elena Bartoni