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Lone Survivor – Recensione

Trascorsi due anni dall’action fantascientifico “Battleship”, Peter Berg torna alla regia e traspone sullo schermo un romanzo bestseller autobiografico scritto a quattro mani da Marcus Luttrell e Patrick Robinson. Nel 2005 alcuni Navy Seals furono inviati in missione per neutralizzare un nucleo operativo di Al-qaeda e si ritrovarono isolati sulle montagne dell’Afghanistan. Dopo una lotta impari contro gli assalti degli estremisti islamici, l’unico sopravvissuto venne protetto con coraggio dalle genti del luogo. Un bel gruppetto di attori carismatici (si distingue Taylor Kitsch, forte del magnetismo alla Che Guevara incastonato nello sguardo) per un war movie appartenente alla contraddittoria categoria della “propaganda alla ricerca di obiettività”. Fin dall’avvio è palese l’intento di tracciare un quadro esauriente ed attendibile della vita militare durante le missioni in zone a rischio, sul piano umano come su quello ambientale. L’attenzione si concentra dunque sul background dei soldati, le loro personalità e l’affiatamento da cui sono legati. Ampio lo spazio occupato dalle sequenze dialogate che li coinvolgono, e raramente sono persi di vista da una cinepresa in movimento perenne. Il soffermarsi a lungo sui personaggi è una decisione pagata cara, in quanto espone la narrazione a cadute nel verboso e nel prolisso. Lo si nota nelle prime fasi della missione, nelle quali l’attesa non è accompagnata da un’appropriata e palpabile suspense. Quando poi la battaglia entra del vivo ed il sangue comincia a scorrere, gli squilibri si spostano sul versante opposto. Spacconate fracassone, azione caotica e clichè banali trasformano la messinscena in una sorta di western conservatore, con i Navy Seals nei panni dei cowboys ed i Talebani al posto dei pellerossa (semplici bersagli, dalla connotazione caratteriale inesistente). Il segmento conclusivo al villaggio, dove rimane in scena il solo protagonista con la “p” maiuscola, consente al film di prendere fiato ed instradarsi sui binari della decenza. Finalmente una degna caratterizzazione di afgani buoni e malvagi, attimi di autentica presa emotiva, ironia percettibile (prima disinnescata da una serietà in bilico sull’assurdo) e combattimenti girati con un sacrosanto senso della misura. Degno suggello è la sequenza situata prima dei titoli di coda, ed il riferimento non è alle foto dei caduti “originali” ritratti accanto ai propri cari (carrellata in odore di facile commozione). A colpire sono didascalie e l’ultima fotografia, riguardanti Luttrell e gli afgani a cui deve la vita. Sono sufficienti quei pochi secondi per riallacciare gli avvenimenti al vissuto di persone reali, e smuovere la coscienza di qualunque sostenitore dell’interventismo in Medio Oriente. L’ultimo tratto della pellicola riesce quindi a nobilitare, pur non riscattandoli, due terzi abbondanti animati da sole buone intenzioni.

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