Nymphomaniac – Volume 2 – Recensione
Il racconto della ninfomane del titolo continua in questo secondo volume prendendo l’avvio da dove si era interrotto. Il suo ascoltatore Seligman segue la storia suggerendo di tanto in tanto parallelismi arditi e colti.
La protagonista Joe alla fine del primo film vive sulla sua pelle un improvviso blocco dell’orgasmo. Il dramma si consuma fin dalle prime scene di questa seconda parte: l’amante Jerôme è costretto ad accettare che Joe cerchi la sua soddisfazione sessuale con altri uomini. Neanche il figlio nato dall’unione tra i due, contribuisce a riavvicinare Joe a Jerôme: la frattura è ormai insanabile. La donna si dedica così a sfogare la sua smania di piacere con due uomini africani per poi esplorare le sue tendenze masochiste sottoponendosi a violente sedute presso il misterioso K. Infine, grazie al nuovo lavoro come addetta al recupero crediti alle dipendenze del losco L, Joe sperimenta il suo interesse per un rapporto lesbico che però avrà delle terribili conseguenze.
Nimphomaniac – Volume 2 cioè i capitoli 6 (La Chiesa d’Oriente e la Chiesa d’Occidente, sottotitolo L’anatra silenziosa), 7 (Lo specchio) e 8 (La pistola) della progressiva discesa agli inferi di una donna ormai adulta e devastata, consumata, lacerata, nel corpo e nell’anima.
In questa seconda parte (dove Charlotte Gainsbourg, oltre a raccontare, incarna i racconti sul suo percorso di ninfomane prendendo il posto della giovane Stacy Martin) di quella che è un’opera che va naturalmente considerata nel suo complesso, von Trier mette il carico, letteralmente, rafforzando e portando agli estremi gli elementi già presenti nella prima parte. Il percorso della protagonista verso progressive prove di capacità di sottomissione e sopportazione del più estremo dolore fisico, fa pensare a una linea di continuità con altre figure femminili dell’universo del regista danese, una donna che sente il bisogno di autopunirsi e che qui insiste sulla sua abiezione.
Ancora di più, questa volta von Trier preme il pedale dell’eccesso, sfiorando perfino la blasfemia. I parallelismi azzardati tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente e le esperienze sessuali della protagonista che passa dal sesso sadomaso, a quello saffico, all’autoerotismo compulsivo, fino all’astinenza obbligata dalle condizioni in cui ha ridotto il suo organo sessuale, conducono a un percorso di martirio del corpo e a una progressiva discesa agli inferi (la donna si priva prima della sua famiglia, poi del sesso e infine dello stato di legalità).
Alla base di tutta l’opera, il dualismo carico di simbologie rappresentato dai due protagonisti: la donna (Joe) è l’istinto, la passionalità, l’irrazionalità, il dionisiaco, mentre l’uomo (Seligman) è la razionalità, il calcolo (anche matematico), l’apollineo. Si, ma fino a dove? Fino a dire il contrario, ribaltando questa divisione e dimostrando che la razionalità può essere rovesciata per mostrarne tutti i suoi limiti (come nella scena finale dopo che il cerchio si è chiuso nello stesso vicolo della scena iniziale), mentre la donna tutta istinto non cadrà nei tranelli della morale.
Lo sguardo sempre più cupo e pessimista sul genere umano del regista danese trova in questa seconda parte il suo apice: nessuno è puro (neanche il “vergine” Seligman), nessuno sembra meritare la salvezza. E lo sparo nel buio della scena finale suggella un nichilismo sempre più radicale.
Il film appare dunque come una lunga seduta di psicoanalisi in cui, per bocca della sua protagonista, von Trier si mette a nudo. Le parole di Joe sono le sue parole, l’odio verso l’assoluta ipocrisia su cui si basano tutte le relazioni umane è il suo odio, così come l’attrazione verso i lati più oscuri dell’essere umano (aspetti che da sempre affascinano il regista).
Davanti a tanta provocazione, ossessioni, violenze, eccessi (il Jamie “Billie Elliot” Bell che frusta a sangue una Gainsbourg piegata e legata a un divano), francamente non si riesce a distinguere il confine tra l’intellettualismo compiaciuto e il voyeurismo fine a sé stesso. Sesso, amore, morte, dolore, se il fine era provocare shock, l’opera può dirsi riuscita a metà, per l’altra metà diverse assurdità, qualche pennellata di ironia dissacrante (la scena dei gioco dei cucchiai sotto il tavolo di un ristorante) e un miscuglio di suggestioni (la matematica, la musica, la letteratura, il cinema, la psicoanalisi e perfino la pesca).
Ma, al di là dell’evidente lavoro di elaborazione delle proprie ossessioni (Joe e Lars si somigliano molto, ma anche per certi aspetti Seligman e Lars), questa volta von Trier sembra davvero restare prigioniero delle sue immagini, dei suoi azzardati accostamenti simbolici e del suo stesso furore provocatorio.
Elena Bartoni