Alabama Monroe – una storia d’amore – Recensione
Delicato, introspettivo, appassionato e reale, Alabama Monroe – Una storia d’amore, la pellicola belga di Felix Van Groening, candidata all’Oscar come miglior film straniero, è un melodramma tutt’altro che sui generis, che riflette sulla vita e regala allo spettatore quasi due ore di intensa, dolorosa sofferenza, mescolata però con la musica, una branca del country, che ispirandosi al blues e al gospel, si fa melodia dell’anima.
Belgio. Elise (Veerle Baetens) è una tatuatrice, Didier (Johan Heldenbergh) è un cantante di musica bluegrass che suona il banjo in un gruppetto. Quando i due si incontrano, è amore a prima vista, ad unirli indissolubilmente, oltre all’attrazione profonda, è l’amore per la musica e una nascita inaspettata, quella della figlia Maybelle (Nell Cattrysse), che presto si ammalerà di leucemia. Per i genitori, tra visioni della vita diverse, non sarà facile affrontare la situazione.
Arriva in Italia, a distanza di qualche anno (il film è del 2012) e si prefigura come uno dei più commuoventi dell’ultimo periodo, una parabola sull’esistenza, sull’importanza di vivere appieno e su ciò che c’è oltre la morte, da un punto di vista razionale e spirituale.
La pellicola infatti, corre su due binari paralleli, ma diversi ed essi hanno un nome: Elise e Didier. Lei tatuatrice, abituata a vivere tenendo conto dei cambiamenti, attestandoli sulla sua pelle, perché irrazionalmente si sente in dovere di farlo, lui musicista, che vive precariamente in una roulotte e non ama i tatuaggi. L’unica cosa ad accumunarli: la musica.
L’amore sbocciato tra i due, grazie ad un colpo di fulmine, sembra roseo, come lo è o dovrebbe essere agli inizi, finendo pian piano però, per disgregarsi. Il film sembra proprio essere costruito infatti, sull’idea di scissione: religione/ragione, vita/morte, follia/malinconia, in un ritmo concatenato, con picchi di intensità caratteriale (scene divertenti e spensierate), per poi sprofondare nel dolore più assoluto.
Potenti le interpretazioni dei due protagonisti, che riescono ad esprimere con le loro interpretazioni (mirabile la scena struggente di Didier e della sua ‘’dichiarazione di guerra’’ a Dio e alle convinzioni religiose), così come la regia, che energica quanto i protagonisti, passa da un registro più malinconico e buio, ad un altro più solare e multicolore, per esprimere felicità o pazzia.
Nella sua interezza quindi, la pellicola si conferma come una buona opera, l’unico aspetto negativo, se proprio glielo si vuol trovare, è dato da un montaggio a volte disordinato, che lascia allo spettatore il compito di capire le varie tappe della storia d’amore tra i protagonisti e le fasi della malattia della piccola Maybelle, rischiando così di rovinarne la fluidità.
Di impianto europeo, con evidenti influssi americani, nella musica, così come nella moderna regia, il film convince appieno, per la particolare energia che sprigiona e soprattutto per la capacità di affrontare temi difficili, senza mai cadere nel ridicolo o tralasciandone l’importanza, dimostrando di saper emozionare appieno.
Alice Bianco