Timbuktu – Recensione
Mali, nazione di cui si sente poco parlare, ma che arriva oggi, con un suo piccolo scorcio e molto particolare, al Festival di Cannes. ‘’Timbuktu’’, di Abderrahmane Sissako, sua quarta opera, è una storia che proviene dal profondo del cuore, impreziosita da uno stile tutto suo: affrontando temi importanti e seri, ma in chiave ironica, senza però cadere nel ridicolo.
Timbuktu, Africa. La città è governata da un gruppo di estremisti, dei fondamentalisti islamici, che terrorizzano la popolazione e impongono molti divieti. Kidane (Ibrahim Ahmed) ha deciso di allontanarsi da tutto ciò e spostarsi con la famiglia e i suoi animali, fuori dalla città, vivendo in pace sulle sponde del fiume Niger. Lì conosce un bambino, Issan, che lo aiuterà a pascolare le vacche. Quando un giorno una di esse si perde, il ragazzino ne va alla ricerca, la ritrova impigliata in una delle reti del pescatore Amadou, che la uccide. Kidane indaga sull’accaduto, ma la situazione gli sfugge di mano.
Ironia, è proprio questo l’elemento nuovo ed originale che esalta il grande valore di questa pellicola, un viaggio nei paesaggi desolati dell’Africa, con gli occhi di chi ci vive, di chi ogni giorno deve sottostare al potere degli estremisti.
Ciò che traspare infatti, è la volontà del regista di mostrare l’assurdità delle regole imposte dai jihadisti (proibiscono la musica, il fumo, il calcio, e impongono alle donne di coprirsi il più possibile), risaltando così la parte assurda e grottesca delle situazioni.
A rendere ancora più divertente il contesto, nonostante la triste uccisione della vacca, da parte del pescatore, che si fa simbolo di questa nazione, piagata e piegata dal fanatismo dei jihadisti, anche un altro elemento: il linguaggio.
Nel villaggio si parlano il francese, l’arabo, l’inglese ed alcuni dialetti, essi vengono sfruttati per evidenziare l’ignoranza e l’ingenuità dei fondamentalisti, che spesso non riescono a capirsi nemmeno tra di loro. Gli estremisti vengono descritti e quasi presi in giro: amano spargere il terrore, ma anche schiavi della modernità (telefoni, cellulari, videocamere e armi).
Del film, quadro corale di una popolazione martoriata, Timbuktu vede il relazionarsi di tutti i personaggi presenti e alle loro spalle, una fotografia e messa in scena ben curate, così come le musiche di Amine Bouhafa.
Timbuktu rimane impresso nella mente dello spettatore, grazie ad alcune scene, una più divertente e significativa dell’altra, delicato, semplice, ma ben definito, il film di Sissako, è un tableau vivant originale e spontaneo, che riesce ad entrare nel cuore dello spettatore.
Alice Bianco