Synecdoche, New York – Recensione
Charlie Kaufman arriva nelle nostre sale con ben 6 anni di ritardo per offrirci un’opera ambiziosa tanto quanto complessa come questo Synecdoche, New York, ma assolutamente riuscita, nonostante i molti difetti che gli si possono imputare.
Caden (Philip Seymour Hoffman) è un regista teatrale che vive la sua vita al limite della depressione, soprattutto dopo che la moglie Adele (Catherine Keener) lo ha abbandonato portandosi dietro la loro figlia. Anche la sua nuova relazione con Hazel (Samantha Morton) finisce praticamente sul nascere e quella con Claire (Michelle Williams) prosegue con alti e bassi, mentre una strana malattia inizia a bloccare tutti i suoi sistemi vitali. Compresa la realtà della sua effimera esistenza, decide di trasferire la sua compagnia teatrale in un magazzino di New York dirigendo i suoi attori per anni, nella rappresentazione dell’esistenza.
“I’m afraid I’m gonna die… I don’t know what’s wrong with me”. Alla luce di quello che poi è accaduto realmente a Philip Seymour Hoffman, protagonista di questa pellicola, Synecdoche diventa, per ironia del destino, il suo testamento cinematografico.
Nel cinema si è sempre parlato di vita e allora Kaufman decide di percorrere l’altra faccia della medaglia, con una riflessione sulla morte e sulla fine delle cose. Un’indagine a matrioska dove, forse, troppe volte, si eccede, si dice troppo riempiendo lo spettatore anche di elementi superflui, ma dove il concetto arriva chiaro e duro.
La vita, o la morte, sono anche un grande palcoscenico dove si fa la propria grande entrata e ci si aspetta che all’uscita arrivi il grande applauso e così il cineasta trasforma l’esistenza del suo protagonista in uno spettacolo infinito, dove i dialoghi avvenuti nella vita reale diventano battute del copione, dove i personaggi reali si confondono con gli attori e, soprattutto, dove, rivedendosi, scatta la catarsi.
Ma se la sineddoche è una figura retorica che indica una parte per il tutto e viceversa, allora Caden e i personaggi che popolano questo film in uno stile felliniano, diventano il modo per parlare universalmente ad ognuno di noi sulla caducità della vita e di come, ogni cosa, sia destinata a finire.
Synecdoche, New York è anche un film basato sulla duplicità e sulla frammentazione della realtà, ogni volta ricostruita in rapporto con la deflagrazione dell’animo del suo protagonista, afflitto dalla sindrome di Cotard (come il cognome di Caden), sindrome che ti porta alla convinzione di essere morto.
Perché è proprio dalla morte che si genera la vita narrativa di questo labirintico, a tratti kafkiano, film dove è facile perdersi, ma anche ritrovarsi, in un’opera ambiziosa, ma affascinante, specchio della vita e della morte, dell’essere umano e del singolo, dove realtà e finzione si fondono, trasformando la vita in un palcoscenico e il palcoscenico in vita.
Sara Prian