Senza Nessuna Pietà – Recensione
Presentato nella sezione Orizzonti del 71esimo Festival del Cinema di Venezia, Senza nessuna pietà segna l’esordio dell’attore Michele Alhaique dietro la macchina da presa. Ospite e protagonista d’eccezione, Pierfrancesco Favino, che in questo ruolo si esprime silenziosamente, ponendo al centro della pellicola la sua robusta corporatura, anche se essa non riesce a sostenere la struttura narrativa e il ritmo del film.
Domenico detto Mimmo (Pierfrancesco Favino) è un muratore che lavorando per lo zio Santilli (Ninetto Davoli) e il cugino Manuel (Adriano Giannini) anche come scagnozzo picchiatore, una sera si ritrova a dover fare una speciale consegna per i due parenti: portare a casa del cugino una giovane ragazza Tania (Greta Scarano) che fa la escort. Arrivata a casa del cugino, Tania, viene salvata da Mimmo che le evita un tentativo di violenza. La situazione però si complica e l’unica cosa da fare per i due è scappare.
Fuggire via, non solo da una brutta situazione, ma da un’intera esistenza. Entrambi i protagonisti della pellicola, Mimmo e Tania, seppur caratterialmente diversi tra loro, lei minuta, giovane e spigliata, lui nerboruto, burbero ma con un cuore tenero, si somigliano più di ciò che sembra.
I due si troveranno infatti a condividere una giornata insieme e quella notte, seguita da un mattino di tensione e dolore, li avvicinerà: Tania porterà la luce e la serenità di un mare e di una spiaggia deserti, Mimmo proteggerà e darà rifugio alla giovane. Il tutto poi, sfocera’ in un amore che potrebbe essere considerato platonico.
Forse solamente questo elemento, l’amore sussurrato, appena suggerito allo spettatore, è l’unica novità significativa del film, che non riesce però nell’intento di mostrare qualcosa di diverso, caratteristica che si richiede ad un’opera prima.
Il film è un tipico esempio di melodramma, che come è facilmente prevedibile sin dall’inizio, non potrà finire bene, questo e di per sé la classica idea di mettere a confronto e far incontrare due persone diverse ma con un’animo simile, sono la rappresentazione della poca originalità posta in essere dal regista e dai co-sceneggiatori, Andrea Garello ed Emanuele Scaringi.
Uniche note positive, l’interprete principale, un Favino ingrassato per l’occasione e che sembra parlare anche con gli occhi, una buona fotografia che riesce ad intrufolarsi nel mondo suburbano della capitale italiana ed una regia che con prevalenza di primi piani, indaga, o almeno cerca, la somiglianza fra i protagonisti.
Il risultato finale però non è dei più rosei, ingabbiato in se stesso, non sembra infatti appartenere al genere noir, più concentrato sulla storia amorosa tra Tania e Mimmo e meno sulle vicende che rappresentano il fulcro dell’opera prima. Per Alhaique quindi, pare esserci ancora da lavorare, specialmente sulla sceneggiatura.
Alice Bianco