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Hungry Hearts – Recensione

Dopo il deludente La solitudine dei numeri primi, Saverio Costanzo ci riprova sempre affiancato da Alba Rohrwacher con Hungry Hearts, una pellicola dal sapore americano, con dei risvolti drammatici, ma non solo, e delle tematiche difficili che il regista affronta con intelligenza e perizia, regalandoci uno dei film più belli di questa 71esima mostra del cinema.

A New York Mina (Alba Rohrwacher) incontra Jude (Adam Driver) del quale si innamora. I due si sposano conducendo una vita tranquilla fino a quando Mina, incinta, incontra una guida spirituale che le dice che il figlio che porta in grembo sarà un bambino ‘indaco’, cioè, secondo la subcultura New Age, con capacità speciali o soprannaturali. La donna, quindi, sviluppa nei confronti del figlio un’attenzione morbosa. Lo tiene lontano dalla luce e dai contatti con il mondo esterno, nutrendolo solo con certi cibi in certi orari. Sarà Jude ad accorgersi di come il bimbo non stia crescendo bene, portandolo dal pediatra e scoprendo la sua denutrizione, inizierà un braccio di ferro tra i due genitori per la crescita del piccolo.

Tematiche attuali, tematiche che fanno riflettere e anche un po’ tremare i polsi. Una spontaneità nella  messa in scena che però, nella sua grandezza, sembra essere studiata a tavolino. Due interpreti come Adam Driver e Alba Rohrwacher in completo stato di grazia. Questo è Hungry Hearts, un film che colpisce e fa male, che si vive in prima persona in uno stile molto lontano dal cinema italiano più classico, buttando un occhio  al grande cinema d’ oltreoceano.

E i riferimenti non vanno cercati in un solo genere. La forza del film di Costanzo sta proprio nella commistione di generi che non cozzano mai tra di loro, ma anzi trovano una loro perfetta armonia. Ed ecco che allora Hungry Hearts parte come una commedia romantica, con un simpatico siparietto in piano sequenza che ci permette di conoscere i due protagonisti, per poi passare lentamente al dramedy e trasformarsi pienamente in drammatico e finire in thriller.

L’opera è prima di tutto un racconto di corpi che si cercano e si respingono con la stessa intensità, che non possono staccarsi, ma allo stesso tempo si ricercano e si esplorano, muovendosi in piccoli spazi dove la telecamera non lascia mai i suoi due protagonisti, in una danza prima dolce, ma che si trasforma ben presto in infernale.

Mina, una Rohrwacher mai cosi intensa ed instintiva, è una moderna Cappuccetto Rosso che, secondo la sua visione, si ritrova, soprattutto nel finale, ad entrare nella tana del lupo che si nasconde sotto le spoglie del cacciatore salvifico, la madre di Jude, che tiene in custodia il bambino dei due protagonisti.

Lo stesso Jude diventa la trasposizione del pubblico che, attraverso di lui, assaggia il cambiamento di Mina decidendo da che parte stare.

Costanzo racconta tutto con estremo candore, dove, come detto, è facile prendere posizione, e lo fa con semplicità dolorosa, scavando nella psiche primordiale,  totalmente instintiva del ruolo genitoriale. Due cuori affamati, come dice il titolo, che hanno bisogno d’amare e di essere amati ma che scatenano un conflitto interno solvibile solo con la continua ricerca utopica dell’innocenza, li dove però,  si nascondono i demoni.

Sara Prian

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