47 Ronin – Recensione
Siamo nel Giappone feudale. Kai (Keanu Reeves), meticcio figlio di un britannico e di una giapponese, è adottato dal generoso Lord Asano. Innamorato di sua “sorella” Mika, il ragazzo conduce un’esistenza sottomessa, gravata dalla’emarginazione e dalla diffidenza di chi lo circonda. Una notte il perfido daimyo rivale, Lord Kira, uccide Asano con la complicità di una strega a lui fedele. Banditi dal nuovo sovrano, che ha ottenuto Mika in moglie, i samurai fedeli ad Asano cercheranno giustizia. E Kai si unirà a loro. Nel trasportare un mito della storia giapponese in una dimensione alle porte del fantasy avventuroso, l’esordiente Carl Rinsch tiene d’occhio il box office occidentale, cercando al contempo di attenersi allo spirito della tradizione letteraria e figurativa del Sol Levante. Se guardiamo alla visualizzazione del fantastico, ed agli effetti speciali da cui è sostenuta, allora le obiezioni andrebbero messe da parte. La finzione viene incorporata nel reale con perizia ineccepibile (mostri e spettri farebbero un figurone in una trasposizione dal vivo del “Mononoke Hime” di Hayao Miyazaki!) ed il finale lascia a bocca aperta tanta è la maestria far interagire i due universi. Il 3D è talvolta superfluo, quando non fastidioso, senza però fare danni irreparabili. Eppure la visione lascia un senso di incompiutezza, come se le diverse componenti del film, apprezzabili prese singolarmente, fossero state assemblate in maniera artificiosa e non raggiungessero mai il trasporto emotivo cercato. Il ritmo è movimentato ma raramente risulta trascinante; il rimando ai valori della cultura nipponica (senso dell’onore e del sacrificio, fedeltà, diffidenza verso i mezzosangue) è sentito nelle intenzioni e schematico nell’esposizione; la regia, tanto corretta quanto nel complesso anonima, si accende solo in isolate sequenze (tra di esse il combattimento sulla nave, in odor di “Pirati dei Caraibi”). Cast valido e prestigioso, e tuttavia mal guidato da Rinsch, che lo indirizza su binari monocordi e prevedibili. Da tale rigidità non è esente Reeves, la cui “espressività” non può certo permettersi di venir abbandonata a se stessa, mentre il generalmente grande Tadanobu Asano interpreta il suo Kira fissandosi su una strafottenza sorniona piuttosto inconsistente. L’unica ad emergere dal piattume è una volitiva e bellissima Rinko Kikuchi nei panni della strega Mizuki, tra l’altro principale sollievo estetico per gli occhi del pubblico maschile in un reparto attrici altrimenti privo di attrattive. E poi a chi giova questo candore asettico, questa ostinata rinuncia al sangue ed alla sensualità, a parte un botteghino da compiacere nonostante tutto (vietato turbare qualunque categoria di spettatori) ? Minato dal timore di sembrare poco giapponese, “47 Ronin” finisce per svuotare una sceneggiatura non trascurabile e mette in scena soltanto esteriormente le passioni descritte sulla carta. Folcloristico più che magico.