ACAB (All cops are bastards) – Recensione
Stefano Sollima, il giovane e promettente regista di Romanzo Criminale – La serie, si lancia nella sua avventura su grande schermo con un film dai temi non facili, come quelli di raccontare la vita di un gruppo di celerini fuori e dentro il loro ambiente di lavoro. In A.C.A.B. – All cops are bastards, tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini, ci viene mostrata la realtà di alcuni appartenenti al nucleo operativo della polizia di Stato. Cobra, Mazinga e Negro sono tre celerini uniti fra loro come fratelli, perché ciò che distingue un celerino è proprio questo, come spiega Cobra (Pierfrancesco Favino) al giovane neo arrivato Adriano (Domenico Diele), ovvero l’appartenenza ad un gruppo, la fratellanza, un celerino da solo non vale niente, la forza e la riconoscibilità gli viene dal gruppo, una specie di clan privato che con lui condivide rabbia, sconfitte, violenza, felicità e problematiche istituzionali. Adriano dal canto suo, è finito in quel famoso gruppo più per necessità economica che per coscienza civile e morale, ma ognuno di loro è portatore sano di problemi, di dinamiche interne, Mazinga (Marco Giallini), il leader anziano del clan, lotta con il figlio adolescente, appartenente ad un gruppo di estrema destra, che ripudia il padre per il suo lavoro e crede di poter ripulire il mondo; Negro (Filippo Nigro), deve risolvere i problemi con una moglie cubana che ha deciso di lasciarlo e che non vuole fargli vedere sua figlia; Cobra è un po’ il collante del gruppo, colui che con la sua esaltazione e con il suo estremismo non dimentica mai il rispetto per la divisa, anche quando non la indossa. A loro va aggiunto Carletto (Andrea Sartoretti) un ex celerino, sbattuto fuori per aver picchiato dei tifosi, che quando non è occupato con la sua dieta a zona, si unisce al gruppo per svolgere vari “lavori”. La loro filosofia di vita si è costituita negli anni, quando dietro ad una divisa hanno affrontato scontri urbani, tensioni allo stadio e problemi nazionali come quelli del G8, (che qui viene solamente accennato), scatenando in loro una personale visione di Stato, con l’odio come sentimento principe. I protagonisti di questa storia possono essere considerati sia vittime che carnefici di una realtà troppo spesso additata e colpita dai pregiudizi, una realtà privata formata principalmente dalla solitudine. Ma chi pensa di andare al cinema e di ritrovarsi a vedere un semplice film sui celerini si sbaglia, perché la scelta registica di Sollima è quella di raccontarci una storia, fatti reali del nostro vissuto, che vanno dagli scontri allo stadio durante le partite, l’uccisione del povero Gabriele Sandri, la morte del poliziotto Raciti fino ai fatti di cronaca con gli stupri a Roma e il razzismo nei confronti degli extracomunitari. Esattamente così come stanno, i fatti si susseguono in contemporanea con i protagonisti del film, senza alcun tipo di schieramento ne’ dalla parte dei buoni, ne’ da quella dei cattivi,riuscendo nell’impresa di muoversi trasversalmente attraverso la realtà dei personaggi e di farsi portavoce di una assai ardua sfida intellettuale, risvegliare attraverso la sua anima rock il cinema italiano. Assopito dietro centinaia di commedie, che ricalcano tutte lo stesso andamento, questa pellicola ci fa riscoprire il piacere di un poliziesco d’altri tempi. Con musiche come Seven Nation Army dei White Stripes, oppure Police On My Back dei The Clash, il regista dona al pubblico un’opera che non pretende di voler imporre alcuna ideologia politica, ma di puntare la lente d’ingrandimento verso una realtà sotto gli occhi di tutti, che può essere applicata al vissuto di ognuno di noi, tutti vittime inconsapevoli di un malessere più ampio, quando basterebbe aprire gli occhi e guardare con più attenzione.
Sonia Serafini