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Amore, Cucina e Curry – Recensione

Un film speziato, come la cucina del piccolo chef indiano protagonista.
Amore, Cucina e Curry è una pellicola che gioca, come il precedente successo di Lasse Hallström Chocolat, con il gusto, i sapori, gli odori.
Adattamento cinematografico del romanzo best-seller “Madame Mallory e il piccolo che indiano” di Richard C. Morais (ma è il titolo originale “The Hundred-Foot Journey” a indicare alla perfezione il nucleo della storia), l’ultimo film del regista svedese trapiantato negli Stati Uniti, ruota attorno alla figura del giovane Hassam Kadam, un giovane chef indiano molto dotato che ha appreso fin da piccolo la passione per la cucina da una madre che considerava la capacità di mescolare ingredienti e spezie come una magia dei sensi. La famiglia Kadam, emigrata dall’India in Europa e guidata dal capofamiglia Papa, si stabilisce per caso (o forse per destino visto che i freni dell’auto si rompono proprio alle porte del paese) nel delizioso villaggio di Saint-Antonin-Noble-Val nel sud della Francia. L’incantevole borgo è il luogo ideale dove aprire ‘Maison Mumbai’, un ristorante indiano a conduzione familiare. Ma le cose prendono una piega inaspettata nel momento in cui Madame Mallory, l’algida titolare dello stellato ristorante francese ‘Le Saule Pleureur’, non si intromette. Le sue vivaci proteste contro il nuovo ristorante indiano che dista solo 30 metri dal suo, danno il via a un’accesa battaglia fra i due locali, fino a quando la passione di Hassan per l’alta cucina francese e per Marguerite, la deliziosa ‘sous chef’ di Madame Mallory, non riuscirà ad amalgamare magicamente le due culture regalando a Saint-Antonin nuovi sapori di cucina e di vita. Madame Mallory riconoscerà il talento culinario di Hassan e lo prenderà sotto la sua ala protettiva.    
Al di là della patina inebriante di sapori e colori dei piatti dei due ristoranti vicini vicini (solo 100 piedi, circa 30 metri, come recita il titolo originale), il film tocca temi importanti come l’accettazione dell’altro, la capacità di cambiare (oggi più che mai comuni a molti immigrati) e il pregiudizio verso chi è lontano per cultura, religione, usi, costumi, sapori appunto.
“Una storia di compatibilità tra le persone meno compatibili al modo” così Steven Spielberg, produttore insieme a Oprah Winfrey e Juliet Blake, ha definito il film, un pellicola che ha il suo centro in una strada che divide due ristoranti (simbolo di una vera barriera culturale e ideologica), vero palcoscenico del teatro di sapori che va in scena. Una strada breve da attraversare ma un viaggio lungo e complicato da compiere per arrivare ad abbracciare l’altro.
Con uno sceneggiatore come Steven Knight e un regista come Hallström, la storia della guerra fra due ristoranti si trasforma in una gradevole commedia culinaria spruzzata di magia e romanticismo tanto cara all’autore di Chocolat. Certo, i punti di contatto tra i due film sono evidenti e forse qualcuno potrà provare la classica sensazione di déjà vu: il paesino incantato, la capacità di sollecitare il gusto altrui con straordinario talento (le spezie che il giovane chef indiano dosa alle perfezione per arricchire i suoi piatti contro le magie di cioccolata della Binoche), gli scontri socio-culturali (e perché no religiosi), i pregiudizi duri a morire, il trionfo dell’amore.
Vincente la scelta degli attori: per la ‘parte indiana’, la giovane promessa Manish Dayal conferisce ingenuità e candore misti a risolutezza e carattere al personaggio del talentuoso ‘piccolo’ chef Hassan, mentre il veterano del cinema indiano Om Puri nel ruolo del patriarca della famiglia Kadam dona al suo personaggio quel mix di autorevolezza, carisma, vitalità, ma anche tenerezza e sottile ironia. Per la ‘parte francese’ svetta naturalmente Sua Maestà Helen-The Queen-Mirren (perfetta citazione-omaggio cinematografica la battuta rivolta da Papa Kadam alla sua ‘regale’ dirimpettaia che lo scruta altera dalle eleganti finestre del suo locale come se fosse, appunto, una regina) per classe, talento, capacità di ‘gelare’ e al tempo stesso commuovere. Una deliziosa ventata di freschezza è portata nel film dalla promettente Charlotte Le Bon il cui broncio tipicamente francese aveva già illuminato l’atelier di Yves Saint-Laurent nel biopic firmato da Yalil Lespert.
Le location del film sono uno dei suoi indubbi punti di forza. Davvero magico l’effetto ottenuto con l’ausilio della tecnologia digitale utilizzata per accostare ai due lati di una strada l’elegante dimora dell’800 in pietra rosa, edificio prescelto per ospitare il raffinato Le Saule Pleureur, con la facciata del ristorante Maison Mumbai (in realtà una grande fattoria in ristrutturazione).    
La nuova favola edificante di Hallström riesce, nel suo incontro di mondi, nell’intento che probabilmente si era prefissata: dispensare buonismo, dolcezza e amore mescolando caratteri (l’esuberanza indiana e il contenuto rigore francese) e sapori (le spezie, i ricci di mare, il pollo Tandoori da un lato, i formaggi saporiti e le ricche salse dall’altro) senza porsi troppo il problema della verosimiglianza (d’altronde di favola si tratta).
Solidarietà e tolleranza vincono nel mondo magico di Hallström (ma, ahimè, non ancora nel nostro), nel quale l’incrollabile dogma delle spezie di famiglia e la rivisitazione esotica di una perfetta omelette sono la metafora culinaria di un’ideale abbraccio tra culture diverse. 
Ma, si sa, sognare al cinema non costa nulla.

Elena Bartoni
 

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