Après Mai (Something in the Air) – Recensione
Concorso – 69. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
La gioventù degli anni Settanta, quel mitico momento di rivoluzione e cambiamenti che tutt’ora affascina e continua a sollevare domande e provocare polemiche, è alla base del nuovo film del regista francese Olivier Assayas. Cresciuto durante quei tumulti, il regista ha fatto di questo particolare periodo storico, il filo conduttore della sua cinematografia, regalandoci perle di rara bellezza come Carlos (miniserie televisiva basata sulla vita del terrorista marxista e mercenario venezuelano Ilich Ramírez Sánchez), vincitrice nel 2011 del Golden Globe.
Parigi, inizio anni Settanta. Gilles è un giovane liceale preso dall’effervescenza politica e creatrice del suo tempo. Come i suoi compagni, esita tra un impegno radicale e delle aspirazioni più personali. Passando da relazioni amorose a rivelazioni artistiche, in un viaggio che attraverserà l’Italia e finirà a Londra, Gilles e i suoi amici dovranno fare scelte decisive per trovare se stessi in un’epoca tumultuosa.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare Aprés mai (che chiaramente già dal titolo, letteralmente “dopo maggio”, si riferisce alla fase immediatamente successiva al 1968), traccia di quel periodo un ritratto ben diverso rispetto alla mitizzazione che spesso se ne fa; gli ideali di rivoluzione culturale e politica sono si ben presenti e chiari, ma Assayas decide di osservarli da un punto di vista meno politicizzato, affidando la riflessione ad un gruppo di ragazzi che ancora devono formare la propria coscienza critica. Non viene dato per scontato il punto di vista dell’adolescente, ancora in cerca della strada da percorrere, anzi, l’indeterminatezza delle loro vite, che passa attraverso l’indecisione emotiva, è proprio il punto di partenza dell’indagine narrativa. Il protagonista, forse, non pienamente addentro ai meccanismi di rivolta e ribellione sociale, distintisi per proteste che vanno al di là del singolo scambio di opinioni, è una sorta di outsider che trova rifugio nell’arte figurativa, deterrente per osservare la natura e il mondo con uno sguardo meno contaminato da ideologismi. Il film, ricco probabilmente di spunti autobiografici, rimane in qualche modo imbrigliato entro le logiche dell’argomento trattato, indugiando sulle stesse sfumature per tutta la sua durata, senza mai distinguersi per intuizioni registiche rilevanti (se non dei movimenti di macchina fluidi e piacevoli) o per una sceneggiatura che si colpisce per la sua onestà, ma non cattura sino in fondo l’attenzione.
Serena Guidoni