Assassinio sull’Orient Express – Recensione
Un classico è un classico e come tale va rispettato. Si sgombri subito il campo da qualsiasi tentazione di stravolgimento o peggio, di ammodernamento.
Assassinio sull’Orient Express è un grande classico scritto da Agatha Christie nel 1934 in una stanza dell’Hotel Pera Palace di Istanbul (oggi divenuta piccolo museo in suo onore).
Classico tra i classici è il romanzo giallo, come il suo investigatore, l’immortale belga coi baffi Hercule Poirot, di grande fascino è la location, l’Orient Express del 1934, un treno mitico che allora aveva lo scopo di unire mondi lontani, l’Occidente in corsa verso la modernità con l’esotico Oriente, alloggiando nei suoi vagoni eleganti, altrettanto eleganti viaggiatori. Ma non solo, classica è la trasposizione cinematografica del 1974 per la sapiente mano di Sydney Lumet con un cast illustre che va da Albert Finney (nei panni dell’investigatore) a Lauren Bacall, da Sean Connery a Jacqueline Bisset fino a Ingrid Bergman.
Questa nuova versione firmata da Kenneth Branagh aggiunge un prologo in cui Hercule Poirot fa sfoggio della sua nota arguzia investigativa a Gerusalemme. Approdato subito dopo nella fascinosa porta d’Oriente di Istanbul, apprende di essere atteso con urgenza a Londra. L’investigatore belga trova all’ultimo momento e per un colpo di fortuna (o sfortuna) un posto sul celebre treno dai vagoni blu e oro. Nel vagone di Poirot alloggia un campionario di colorita umanità, ma una valanga e l’omicidio del signor Ratchett, un uomo d’affari americano, interrompono il tranquillo viaggio del baffuto detective. Mr. Bouc, direttore del treno, chiede all’investigatore di scoprire il colpevole. Con il treno bloccato in mezzo alla neve e con tredici passeggeri sospettati, Poirot deve usare tutto il suo acume e tutto il suo sesto senso per scoprire un’inquietante verità.
Agatha Christie e una delle più celebri indagini dell’investigatore più famoso di sempre in mano a Kenneth Branagh e al suo talento di regista e istrione. Reduce da tante trasposizioni shakespeariane per il cinema, interrotte da una serie di ‘vacanze’ presso eroi da fumetto come Thor, spie come Jack Ryan e dopo una incursione nel mondo Disney con la rivisitazione in live action di Cenerentola, Branagh torna a trattare una ‘materia’ di casa sua riprendendo in mano uno dei più celebri romanzi della regina inglese del giallo. Singolare caso, Agatha Christie scrisse “Murder on the Orient Express”, come detto, in una stanza di un hotel a Istanbul traendo ispirazione proprio da un suo recente viaggio in treno verso Baghdad.
Da istrione quale è, l’infaticabile Kenneth non poteva non mettersi, oltre che alla regia, anche nei panni dell’investigatore belga indossando un bel paio di baffoni. La cosa che è più evidente, fin dal prologo aggiunto dal regista e ambientato a Gerusalemme, è l’aver messo al centro della narrazione la grande personalità del detective amante dell’ordine meticoloso e delle celebri oeufs à la coque (che devono essere sempre delle medesime dimensioni e a prova di righello).
Branagh immerge l’indagine del ‘suo’ Poirot in una messinscena grandiosa, cogliendo diverse occasioni per ‘uscire’ dal treno. E così lo spettatore viene portato spesso fuori dai convogli per essere coinvolto in travolgenti piani sequenza (bellissimo quello che inquadra l’ingresso di Poirot sull’Orient Express dall’esterno accompagnando i passi dell’investigatore che attraversa il vagone senza interruzione fino al suo scompartimento) o in vorticose riprese dall’alto (significativa quella che mostra il ritrovamento del cadavere da parte del detective). Si indugia, con l’aiuto della tecnologia digitale, all’esterno del treno con rossastri tramonti e fascinosi paesaggi ricoperti dalla neve che contrastano con il calore, il comfort e l’eleganza degli interni.
E così il regista aggira la costrizione dello spazio chiuso ma rinuncia a quel senso di claustrofobia che era l’ingrediente principale del film di Lumet (e del plot del romanzo).
Tra candide tovaglie, porcellane preziose, coppe di champagne e invitanti dessert al cucchiaio, si muove un gruppo di personaggi feriti, sofferenti, in qualche modo alla deriva e in fuga da un passato pieno di fantasmi.
In un luogo sospeso, un treno bloccato tra la neve e in bilico su un costone, l’investigatore approfitta del deragliamento ‘arginato’ per mettere a nudo fantasmi, bugie, scottanti verità, usando come al solito la sua fine arguzia. Il tempo è sospeso (come lo è quello di un viaggio), lo spazio è esiguo, l’urgenza della verità incombe e lo show di Poirot/Branagh va in scena mettendo, a onor del vero, un po’ in ombra la galleria di sospettati.
Ma un sorprendente smascheramento finale salva il risultato. Con un grande colpo di teatro, Branagh allinea i sospettati all’interno di una galleria lungo un tavolo con un’invenzione iconografica che ricorda ‘L’ultima cena’ leonardesca e dà il via al climax finale.
E così il cast stellare che mette insieme Michelle Pfeiffer (la migliore), Judi Dench, Penelope Cruz, Willem Dafoe, Daisy Ridley con la partecipazione di Johnny Depp, si mette con gran mestiere al servizio di un grande regista e del suo personale show di virtuosismi (ma, come è noto, Branagh non è nuovo a questa tentazione).
Fatta salva la sostanza di una storia perfetta e a suo modo esemplare, dove l’atto criminale ancora una volta deve fare i conti con la coscienza individuale.
Elena Bartoni