Bianco – Recensione
Un sogno, o peggio, un incubo? La proiezione di paure e frustrazioni? Realtà o immaginazione?
Il film Bianco si muove in una dimensione sospesa tra l’onirico e il realistico.
Primo lungometraggio di Roberto Di Vito, regista autore di diversi cortometraggi e con un passato di assistente di Nanni Moretti e Dario Argento, il film sviluppa un soggetto utilizzato nel 2001 in un corto dallo stesso titolo. Film indipendente, distribuito direttamente per il mercato home video, vanta passaggi nelle edizioni 2011 del Bari International Film Festival, del Fanta-Festival e del Terra di Siena Film Festival.
Bianco si apre su un uomo che si sveglia e si ritrova in una strana stanza legato mani e piedi a un letto, con occhi e bocca coperti da una benda bianca. Il giovane indossa una tuta bianca e il bianco è l’unico colore che intravede. E’ immobilizzato e può solo muoversi con la mente. Ed ecco sovrapporsi ricordi reali o solo immaginati inframmezzati da momenti di realtà quando i suoi carcerieri entrano per portargli da mangiare.
Un incubo, o forse più semplicemente la storia di una solitudine, la solitudine di un ragazzo che sente il peso dei suoi fallimenti e che, costretto in una situazione di prigionia, rivive la sua vita in flash tra il reale e l’immaginario.
Cinematograficamente acerbo, il film lascia intravedere una sceneggiatura molto scarna e si fonda soprattutto su movimenti di macchina che mettono in moto una serie di suggestioni visive. Si gioca sull’occhio del protagonista, quello esterno, la cui vista è impedita da una benda bianca, e quello interiore, che viaggia alla scoperta delle pieghe più intime dell’anima. Un gioco moltiplicabile perché l’occhio è anche quello della cinepresa che lo riprende e, in modo ancora più allargato, l’occhio del cinema, fatto del duplice occhio di chi gira e di chi guarda.
Bianco è un film che somiglia molto a un esercizio di stile. Al centro una vittima, un’anima indifesa che combatte prima di tutto con sé stessa e con gli abissi della sua anima che man mano lascia intravedere un altro livello del racconto, la storia di un sequestro sbagliato. La risoluzione del mistero si fa strada intervallato da flashback e proiezioni della mente del protagonista. Ed ecco le frustrazioni della vita di Luigi (questo il suo nome) fatta di fallimenti professionali, viaggi solo sognati e mai intrapresi, amori vagheggiati e una paura costante. Già, proprio la paura sembra essere il vero tema-cardine del film, paura di affrontare la vita e le sue delusioni, paura che ricopre tutto con un diffuso senso di inadeguatezza. Un tema molto attuale a dire il vero, e proprio in questo risiede il merito principale del film: mostrare il dramma di un giovane, un “invisibile” dimenticato da tutti, dalla società e perfino per i suoi parenti che neanche ne denunciano la scomparsa, che vive sogni di purezza, libertà e paradisi irraggiungibili che affondano le radici in una situazione reale di grande disagio. Un incubo “metafisico” ma allo stesso tempo profondamente ancorato alla realtà.
La sperimentazione visiva che si tenta sembra vicina a certe suggestioni della moderna video arte per un film che, in fondo, parla della paura che ognuno di noi deve avere dei fantasmi che vengono da noi stessi più che dall’esterno.
A conti fatti resta però il dispiacere per uno spunto interessante reso in maniera solo a tratti efficace ma non supportato da un’adeguata maturità stilistica e da una recitazione di livello (in ragione anche del bassissimo budget a disposizione).
Un esperimento che può dirsi riuscito a metà. Attendiamo il regista alla sua prossima prova.
Elena Bartoni