Blackhat – Recensione
Blackhat, letteralmente ‘cappello nero’, ossia un ‘hacker immorale’ e dagli intenti criminali. Il termine è utilizzato nel campo della sicurezza informatica per riferirsi a una persona dalle grandi capacità che opera però con fini illeciti. Si tratta di hacker che agiscono in modalità silenziosa e soprattutto per spionaggio governativo, sono i più esperti dal punto di vista informatico ma anche i più dannosi.
E’ uno di loro il protagonista del cyber thriller di Michael Mann, un hacker pregiudicato, Nicholas Hathaway (Chris Hemsworth), in licenza dal carcere federale in cui è rinchiuso con una condanna di quindici anni. Insieme ai suoi soci americani e cinesi, deve cercare di identificare e sventare una pericolosa rete di criminalità informatica attiva a livello mondiale, da Los Angeles a Hong Kong, fino alla Malesia e a Giacarta.
C’è infatti un attacco informatico (un malware si è insinuato nell’accesso remoto) dietro all’esplosione del reattore di una centrale nucleare vicino a Hong Kong, come c’è un cyber-attacco al Mercantile Trade Exchange dietro alla salita del prezzo della soia alle stelle nel giro di poche ore. Il capitano Chen Dawai, al comando dell’Esercito Popolare di Liberazione che deve dare la caccia all’autore dell’attacco, convince l’FBI a servirsi proprio di Hathaway, di cui è vecchio amico e collega. Rilasciato in libertà vigilata, Hathaway muove la sua indagine fin oltre il limite oltre il quale deve proseguirla da solo. La posta in palio è alta: la scoperta dell’autore del malware in cambio della commutazione della sua pena. L’aiuto gli viene dall’affascinante ingegnere informatica Chen Lien, sorella del suo migliore amico.
Il nemico pubblico (uno dei tanti incontrati dal cinema di Mann) questa volta è un’invisibile e pericolosa organizzazione criminale informatica che opera da una postazione ignota: è il futuro della criminalità, in cui tutto il nostro mondo è controllato da invisibili e inafferrabili “bit”.
La realtà digitale e le sue oscure implicazioni, quei mondi sotterranei che da sempre attraggono Michael Mann, quel lato nascosto che si nasconde spesso sotto la facciata: una tentazione fortissima per un film-scommessa come questo.
Blackhat è un thriller action dietro cui si cela una seria riflessione di un autore intelligente e profondo. Non sono molte le scene ad alto tasso di adrenalina perché nel film di Mann c’è molto di più. Nella prima parte sono concentrate le corse da una parte all’altra del mondo a caccia di indizi sulla fonte del cyber crime ma la ragion d’essere del film risiede nelle due realtà messe a confronto fin dal principio: un universo virtuale (quello che si nasconde dietro agli attacchi informatici) di fronte a un universo reale, quel mondo che si apre per il protagonista, ora in libertà (significativa la scena in cui Nick si ferma sulla pista di un aeroporto, e, vicino all’aereo su cui sta per salire, osserva lo spazio aperto che vede intorno a sé).
Blackhat parla di una guerra, della guerra di oggi che ha cambiato armi, niente più pistole o fucili (sono lontani i tempi di Heat – La sfida) ma dispositivi invisibili, infinitesimali, non tangibili appunto, per cui è sufficiente avere una rete wireless per combattere: è questa l’idea alla base del film di Mann, coadiuvato in fase di sceneggiatura da Morgan Davis Foehl.
L’architettura dell’hardware di inizio film è altamente simbolica, nell’incipit l’occhio dello spettatore viene catturato e trascinato all’interno dei cavi che collegano diversi server e poi direttamente nei circuiti dove corre veloce lo scambio di dati. Un mondo interconnesso, interamente comandato dalla tecnologia, un universo virtuale nel quale ormai l’uomo è completamente immerso, incapace in alcuni casi di tornare al mondo reale. Un dualismo, un contrasto, un doppio che è alla base di tutto il film e che nel bellissimo finale si scioglie in una fusione tra reale e virtuale.
Tangibile e intangibile, luce e buio, uomo e fantasma (“ghostman” è il nickname scelto dal protagonista per comunicare on line con il villain di turno).
Attraverso immagini di grande fascino (accompagnate da una colonna sonora perfetta), Mann finisce per dirci una cosa semplice: la paura per l’uomo del terzo millennio non viene dal terrorista di turno (o perlomeno non solo) ma nella presa di coscienza della sua stessa vulnerabilità di fronte alle tecnologie che lui stesso ha creato per vivere “in sicurezza”. Ecco il paradosso dei paradossi che domina il nostro mondo pieno di paure. Tutti i dispositivi che usiamo quotidianamente sono destinati a sopravviverci, continuando dopo la nostra morte a immagazzinare dati e a distribuirli.
Come in tutti i film di Mann, non mancano folgoranti scene d’azione dove la notte domina su tutto, come l’illustre predecessore Collateral e la sua meravigliosa resa digitale, sequenze che contribuiscono a rendere Blackhat uno dei più riusciti saggi di un cinema molto personale, caratterizzato da un tocco d’autore pressoché unico.
Mente e cuore, ragione e sentimento, macchina e uomo, frastuono e silenzio, azione e amore, tutto è compiuto, tutto va oltre, al di là di quell’eterno contrasto tra spettacolo puro e profonda introspezione che solo il cinema di Mann sa fondere con incomparabile maestria.
Elena Bartoni