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Blue Jasmine – Recensione

Eccola qua, delicata e fragile come un fiore ma anche forte e distruttiva come un uragano, Jasmine, nuova eroina di Woody Allen e nuovo immenso personaggio femminile che va ad arricchire la galleria di indimenticabili donne della filmografia del maestro newyorkese.
L’incipit più adatto alla storia di Jasmine potrebbe essere davvero il “c’era una volta” delle favole. C’era una volta Jasmine (Cate Blanchett), elegante e mondana regina della borghesia di Park Avenue, moglie del ricco uomo d’affari Hal (Alec Baldwin) che la viziava come una vera regina. Purtroppo Hal non era esattamente il principe azzurro delle fiabe ma un truffatore finanziario e un marito fedifrago. L’arresto di Hal e la fine del matrimonio portano a Jasmine sull’orlo della bancarotta e di un esaurimento nervoso. La donna, sola e dipendente dagli antidepressivi, decide così di trasferirsi a San Francisco dalla sorella Ginger (Sally Hawkins). Sebbene sia ancora in grado di mantenere il suo portamento aristocratico, Jasmine è uno stato emotivo fortemente instabile. Mal sopporta Chili (Bobby Cannavale), il nuovo fidanzato di Ginger che considera un perdente, e neanche l’ex marito della sorella, Augie (Andrew Dice Clay). Ginger le consiglia di tentare la carriera di arredatrice di interni ma nel frattempo Jasmine deve accettare malvolentieri un lavoro come segretaria in uno studio dentistico dove attira le attenzioni del dottor Flicker (Michael Stuhlbarg). Poco tempo dopo, Jasmine considera come ancora di salvezza l’incontro con Dwight (Peter Sarsgaard) un diplomatico infatuato della sua bellezza e della sua raffinatezza.
C’era una volta Jasmine e ora non c’è più. C’era una volta New York e una meravigliosa ed elegante dimora e ora c’è San Francisco e un modesto appartamento abitato da una sorella cassiera di supermercato, per di più fidanzata con un ragazzo volgare.
C’erano una volta Woody e i suoi “balletti” fatti di incontri e incroci amorosi e non, conditi da memorabili discussioni sulla tragicommedia della vita piene di battute ironiche e fulminanti.
C’erano una volta tutte queste cose ma ora c’è qualcos’altro.
Dopo i soliti titoli di testa su schermo nero accompagnati dal consueto ritmo jazz, quello che si apre agli occhi dello spettatore è qualcosa di diverso, un mondo vuoto e desolante dominato da una donna con un fardello pesantissimo. Jasmine è una bella signora quarantenne che vive costantemente del giudizio degli altri per aumentare la sua autostima ma che resta fondamentalmente cieca di fonte a ciò che accade intorno a lei. E’ una donna che vive tristemente ancorata al proprio (glorioso) passato e ad un’immagine che si è costruita su misura come un abito perfettamente aderente alla sua elegante figura (perfino il suo nome non è quello vero, avendo sostituito Jeanette con il più poetico ed evocativo Jasmine), una che giudica le persone in base a quello che possiedono e non per quello che sono davvero, una signora capace di costruire castelli di menzogne tentando di apparire diversa da com’è, nascondendo il suo vuoto etico e la sua instabilità emotiva dietro una facciata di inutili e scintillanti orpelli. Perché, come ha sottolineato la sua straordinaria interprete, “la verità è spesso terrificante soprattutto quando tutta la tua vita è stata una finzione”. 
Il film segna il ritorno al Woody creatore di donne stra-ordinarie, alle sue eroine indimenticabili interpretate da attrici come Mia Farrow, Diane Keaton, Gena Rowlands. Come la protagonista di Un’altra donna, anche qui il personaggio femminile vive una crisi di autocoscienza scoprendosi diverso da come pensava di essere; come quel film, anche questo è percorso da una grande tristezza di fondo. Blue (che in inglese vuol dire anche “demoralizzato, infelice”) Jasmine (“gelsomino”), un fiore colto in tutta la sua fragilità.
L’omaggio alla Blanche DuBois del capolavoro di Tennessee Williams Un tram che si chiama desiderio è evidente, come anche è chiaro il riferimento della sorella Ginger (una brava Sally Hawkins, con Allen già in Sogni e delitti) a Stella DuBois.
Dopo il ‘Grand Tour’ europeo, Woody Allen torna nella sua America ma sull’altra sponda dell’oceano, approdando in una San Francisco straniante e straniera per la protagonista, una città che le rivela un mondo diametralmente opposto al suo. Il continuo gioco tra passato e presente è costruito in modo funzionale all’alternarsi tra i flashback ambientati a New York e il presente a San Francisco, come se il regista facesse davvero un viaggio nel suo stesso passato di cineasta, prima radicato nel cuore della Grande Mela, ora in cerca di nuovi stimoli dalla parte opposta dell’oceano. Lo stesso parallelismo può leggersi nella doppia crisi, quella dell’alta finanzia con cui l’ex marito di Jasmine giocava (non sempre in maniera pulita) e quella interiore della protagonista. Una crisi finanziaria che corrisponde, non a caso, al tracollo di identità e certezze.
La prova di una Cate Blanchett nevrotica, tormentata e torturante è semplicemente maiuscola, priva di qualsiasi sbavatura, praticamente perfetta. L’attrice, il regista e la sua macchina da presa, nient’altro per rendere grande un film.

Elena Bartoni
 

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