Borg McEnroe – Recensione
Un duello eterno, sportivo e umano, tra due grandi campioni, dentro e fuori dal campo da tennis.
Ad affrontarsi due dei più grandi miti dello sport di tutti i tempi: da una parte l’algido e composto Bjorn Borg (Sverrir Gudnason), dall’altra l’irascibile e sanguigno John McEnroe (Shia LaBeouf). Il primo desideroso di confermarsi re incontrastato del tennis, il secondo talento emergente e determinato a spodestarlo.
Vincitore del Premio del Pubblico BNL alla dodicesima Festa del Cinema di Roma, Borg McEnroe diretto da Janus Metz racconta la vita, dentro e fuori dal campo, di due miti della storia del tennis partendo dall’epica finale di Wimbledon del 1980 per andare a ritroso nel tempo e cercare di capire come il talentuoso ragazzino svedese Bjorn e il ribelle americano John sarebbero diventati due icone del tennis mondiale.
Paragonando il suo film a una versione ambientata nel mondo del tennis di Toro scatenato, il regista Janus Metz ha sottolineato come il suo film racconti la storia di due ragazzi in lotta per dimostrare di essere il migliore. Prigionieri della loro rivalità, i due hanno finito col fare i conti con loro stessi e con i propri demoni.
Due uomini opposti, due giocatori diversissimi, due star della loro epoca, due giocatori rappresentanti di un tennis che di lì a poco, complici i cambiamenti dei materiali delle racchette e quindi il tipo di approccio alla palla, sarebbe mutato totalmente.
Il film si apre con una citazione tratta dal libro autobiografico “Open” di Andre Agassi (forse l’ultima vera rockstar del tennis) che mette in rilievo la dimensione psicologica del tennis, “ogni partita di tennis è una vita in miniatura”, uno sport in cui dentro ogni partita c’è la vita e in cui ‘la testa’ gioca un ruolo findamentale.
“E’ qui Bjorn, è tutto qui” dice l’allenatore-mentore Lennart Bergelin (cui offre il volto un perfetto Stellan Skarsgård) indicando la testa a un giovanissimo Borg, un talento precoce (belle le immagini sgranate di un Bjorn bambino intento a scagliare la palla contro la serranda di un garage) che spesso non riusciva a contenere la propria rabbia tanto da essere allontanato dal circolo in cui si stava formando come giocatore. Provvidenziale fu l’intervento di Bergelin, allora capitano della squadra svedese di Coppa Davis, che lo instradò verso il successo già dal 1972, quando Borg aveva appena quindici anni.
Non era un tipo facile Bjorn, la sua carriera fulminea era costellata di momenti di crisi, era un tipo metodico, quasi maniacale nei suoi riti superstiziosi prima di ogni torneo. Alla finale di Wimbledon del 1980 Borg arrivò pieno di pressione e di demoni interiori (delle quali erano testimoni pazienti Begelin e la compagna Mariana Simionescu ex tennista rumena diventata poi sua moglie).
La stessa tensione, la stessa sensazione che giocare a tennis era come giocarsi la vita, accomunava Borg a McEnroe. Entrambi molto giovani all’epoca di quella storica finale, Borg aveva 24 anni e McEnroe 21, i due talenti misero in campo tutto. Lo svedese arrivava da quattro finali consecutive vinte e cercava di raggiungere il record dei cinque titoli consecutivi (non sveliamo il risultato per non sciupare la sorpresa soprattutto alle giovano generazioni).
Un altro dualismo sportivo e umano non dissimile da quello portato sul grande schermo da Ron Howard in Rush con Niki Lauda e James Hunt pronti a sfidarsi fino all’ultima corsa in un campionato di Formula 1 passato alla storia.
E la scena finale del film di Janus Metz in cui i due campioni della racchetta si incontrano all’aeroporto e finiscono per abbracciarsi (preludio a un’amicizia che negli anni diverrà sempre più salda) non può non richiamare alla mente la sequenza dell’incontro e dell’abbraccio avvenuto in un hangar ai piedi di un aereo tra Lauda e Hunt nella pellicola howardiana.
Vero racconto non di una sola epica partita, ma della partita di due vite, Borg McEnroe narra due esistenze diverse ma complementari e porta sullo schermo l’introspezione di due psicologie complesse. A dire il vero il film (di produzione svedese) è più Borg che McEnroe, e si concentra soprattutto su una figura unica nel panorama sportivo mondiale, quell’Ice Borg tormentato e sensibile, abile nel creare magie dentro il campo ma incapace di gestire i fantasmi della propria mente, un campione che si ritirò a soli 26 anni.
E su quella lunga interminabile partita tra il glaciale svedese dai lunghi capelli biondi e l’americano riccioluto, intemperante e focoso (vero incubo per gli arbitri di tutto il circuito) si concentra l’ultima parte di film, mostrando i colpi con dei movimenti di macchina rapidi e con inquadrature oblique la geometria di un campo che divenne vero ring per quasi quattro ore, perché alcune volte un match può valere una vita.
Borg McEnroe è un film che acquista un valore aggiunto perché restituisce un’epoca in cui un match tra un giocatore preciso come una macchina e un campione che aveva dalla sua genialità e lampi di pazzia era il simbolo di un tennis nel suo periodo d’oro, un periodo in cui questo sport raggiunse un picco di popolarità che sarebbe stato difficile toccare di nuovo.
Elena Bartoni