Cavalli – Recensione
Cavalli è una “piccola-grande storia” ambientata alla fine dell’Ottocento, in una piccola comunità tra le montagne dell’Appennino. In una casa sperduta in mezzo a una vallata vivono Alessandro e Pietro, due fratelli di tredici e undici anni, diversi ma molto legati. I due vivono a stretto contatto con la natura selvaggia del luogo e trascorrono le giornate tra corse con i carretti giù per i ripidi pendii dei boschi e tuffi nel fiume. La dolce figura della madre riesce a mitigare la severità del padre, duro nelle sue punizioni soprattutto con il primogenito. Alla prematura morte della madre, il padre dice ai due ragazzini che d’ora in poi dovranno cavarsela da soli. Venduti gli ultimi averi, regala ai figli due puledri selvaggi, Baio e Sauro. Lasciati soli in balia di loro stessi, i due ragazzi si recano dal maniscalco Pancia e lo pregano di insegnargli tutto ciò che serve per occuparsi dei loro cavalli. I due crescono insieme all’uomo e a sua moglie Amanda, che diventano i sostituti di quella famiglia che non hanno più. Divenuti adulti, mentre Alessandro sente crescere dentro di sé il desiderio di oltrepassare il confine delle montagne e andare lontano, Pietro molto legato alla sua terra e ai cavalli, vuole diventare allevatore e vivere con la ragazza che ama Veronica. Combattendo per realizzare i loro desideri, i due fratelli si troveranno uniti a fronteggiare le difficoltà della vita.
Due anime selvagge, due cavalli da domare, il paesaggio aspro dell’Appennino, Cavalli è un film particolare. E finalmente! Finalmente il cinema italiano ci restituisce una storia epica e avventurosa, una vicenda familiare a tratti melodrammatica ambientata in una cornice assolutamente inconsueta. L’Appennino di fine Ottocento era un territorio ostile, proprio come i cavalli selvaggi, splendidi animali sempre al centro del film. Per loro si combatte, si arriva quasi a uccidere, ma in loro si ritrova anche la forza di sopravvivere e forse anche il senso di una vita.
I due protagonisti sono due anime “selvatiche” come i due puledri che si ritrovano per le mani e a cui sono costretti ad aggrapparsi come unica risorsa per sopravvivere. Dopo essere stati messi di fronte alle difficoltà della vita poco più che bambini, i due prenderanno strade diverse: uno sperimenterà la vita di città, tra scommesse, bordelli, liti e sentirà il bisogno varcare il “confine”, l’altro imparerà il mestiere di allevatore da un maniscalco rude ma dal cuore tenero, incontrerà l’amore e diventerà un uomo forte tanto da caricarsi sulle spalle il peso dei suoi affetti familiari.
Presentato all’ultima Mostra di Venezia nella sezione “Controcampo italiano”, il film ha molti pregi. Il giovane regista Michele Rho, al suo esordio in un lungometraggio, dimostra di saper “domare” bene la sua creatura, nonostante le difficoltà delle riprese in un territorio difficile con un cast composto da uomini e animali. Il suo film è anche una lezione di vita senza tempo. Quel desiderio di “varcare il confine”, sentito fortemente da uno dei due protagonisti, è un ovvio confine metaforico che conferisce al film il sapore di una parabola universalmente valida per i giovani.
Rilettura dell’omonimo racconto di Pietro Grossi, il film può vantare un’ottima resa visiva, con i paesaggi dell’Appennino restituiti nella loro maestosa forza. Grande merito agli attori protagonisti, Michele Alhaique e Vinicio Marchioni, capaci di reggere quasi da soli il peso del film, affiancati da bravi comprimari come Duccio Camerini nei panni di Pancia, l’uomo che insegna ai due giovani tutto ciò che c’è da sapere sui cavalli, Giulia Michelini, nel ruolo della ragazza amata da uno dei protagonisti, una delle poche ma incisive figure femminili in un film molto “maschile”. Molto convincenti i due piccoli Luigi Fedele e Francesco Fedele, due visi svegli e molto espressivi capaci di dare la giusta forza ai due protagonisti da bambini. Breve apparizione per Asia Argento nei panni della madre che, con la sua morte prematura, è il vero motore della vicenda. Menzione a parte per Pippo Delbono che, con il cameo di un viscido bovaro, impreziosisce una pellicola che è già un piccolo dono per il nostro cinema.
Elena Bartoni