Cosmopolis – Recensione
Presentato alla sessantacinquesima edizione del Festival di Cannes, “Cosmopolis” di David Cronenberg è l’adattamento, scritto dallo stesso regista in appena 6 giorni, dell’omonimo romanzo di Don DeLillo, apparso nelle librerie nell’ormai lontano 2003.
Con uno sguardo sempre al futuro e con l’etichetta di regista profetico Cronenberg sceglie un testo, quello dell’autore italoamericano, che ha già in sé i prodromi della preveggenza. Cominciato nel 2001 ed ambientato ai tempi della bolla speculativa delle dot-com il libro, così come il film, offrono una chiave di lettura sulla prevedibilità dell’attuale crisi economica, dimostrando con chiarezza le doti dello scrittore e del regista nel comprendere e far proprie con largo anticipo le direzioni intraprese dalla società americana e dal capitalismo più in generale.
Vera e propria Odissea moderna, il film è la storia, raccolta in una sola giornata, del plurimilionario Eric Packer (Robert Pattinson), golden boy della finanza, che dopo una delle molti notti insonni, si alza con l’ossessione di farsi accorciare i capelli dal vecchio barbiere del padre ad Hell’s Kitchen, esattamente all’altro lato della città di New York rispetto al suo elegante attico a tre piani.
Attraversare la città da est ad ovest, seduto sul trono istallato sul sedile posteriore della sua lussuosa limousine, insonorizzata e a prova di proiettile, dovrebbe esser cosa da poco, ma non oggi, la sua guardia del corpo (Kevin Durand) lo ha avvertito, il presidente degli Stati Uniti è in visita in città e paralizza il traffico di Manhattan. Come se non bastasse, a ritardare l’arrivo a destinazione si aggiungono le proteste che montano feroci in piazza e il funerale di un rapper seguito da centinaia di fan in lacrime. Freddo ed irremovibile Packer non si scompone neanche alla notizia di “minacce credibili” per la sua stessa persona ed intraprende il viaggio fermandosi qui e là per far salire i suoi consulenti e dipendenti, esperti di tecnologia, finanza e teoria.
A bordo di una limousine dal passo lento e dalle molte soste il ventottenne milionario, insoddisfatto ed annoiato, vedrà crollare il proprio impero per non aver saputo prevedere il tasso di cambio dello yuan. Visionario e geniale, in grado di leggere i movimenti delle borse e l’andamento delle valute, Packer ha fondato la propria ricchezza su un intuito e un sesto senso sconosciuti persino ai propri dipendenti più stretti, eppure questo smacco che dovrebbe alterarne l’impassibilità e l’autocontrollo non ne scalfiscono neanche l’espressione del volto. Sui finestrini della sua macchina, come fossero scene trasmesse in televisione, passeranno rivolte furiose e contestatori urlanti, ma il mondo fisico, i suoi problemi e i suoi pericoli non sembrano preoccuparlo più di tanto e non riescono a sfiorare il mondo cui vive.
Rispettoso delle tre unità aristoteliche, il film del regista canadese rappresenta la discesa negli inferi del suo protagonista e della nostra società capitalista tendente all’autodistruzione. Il guru della finanza che parla di tempo e soldi, l’esperto di nuove tecnologie che lo vuole convincere dell’inviolabilità della propria limousine, l’esperta d’arte che gli offre un Rothko e ne soddisfa le voglie sessuali salgono a bordo e intrattengono in vario modo il proprio capo ma tutti appaiono gli ospiti sul letto di un moribondo per il loro ultimo saluto.
Fissità espressiva e tono mono corde contraddistinguono la recitazione di Pattinson che qui ben si adatta al personaggio del plurimilionario, giovane, egoista ed autoreferenziale, che affascina inizialmente lo spettatore ma finisce per sfiancarlo, complici anche i dialoghi. Packer risponde infatti di rado alle domande, mai in modo diretto e spesso ponendone di nuove; lo stile dei dialoghi del romanzo viene ripreso da Cronenberg, che cita Marx e Herbert, ma la cosa non sembra funzionare, le battute si fanno spesso oscure e non sempre tra domanda e risposta c’è una consequenzialità.
Il messaggio del film ne resta offuscato, di non immediata comprensione, lo spettatore esce dalla sala stordito, sapendo che dovrà rispondere ad una serie di domande che il film pone e a cui sembra rispondere come il proprio protagonista.
Daniele Finocchi