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Don Jon – Recensione

Jon Martello (Joseph Gordon-Levitt), per gli amici Don Jon, è un giovanotto dalla vita sessuale alquanto sconsiderata. Non stabilisce una relazione seria con nessuna delle innumerevoli fanciulle da lui frequentate, e trae vero appagamento solo dalla pornografia consumata sul web. Un giorno incontra Barbara (Scarlett Johannson), completamente diversa da lui (romanticona, ordinata, intransigente nei rapporti umani) e la sua esistenza sembra svoltare. Lei però sorprende il suo “vizio”, e lo molla. La parallela relazione con la bella cinquantenne Esther (Julianne Moore) insegnerà a Jon la strada della maturità sentimentale ed il significato della parola amore. Levitt, all’esordio nella sceneggiatura e regia di un lungometraggio, ha chiarito di non aver voluto girare un film sul porno bensì una commedia romantica su argomenti come l’oggettificazione dell’altro nelle relazioni umane o l’invadenza dei media nel plasmare la mente dell’individuo. Lo è, in maniera squisitamente verace. Lo stile non ha nulla di deplorante o moralistico, e si tiene a dovuta distanza sia dal vuoto commercializzato (cinepanettoni & co.) sia da certi sottoprodotti USA che vorrebbero veicolare una presunta morale tramite la volgarità. I mezzi, ossia immagini e dialoghi spinti oltre le vette della scurrilità, sono giustificati dal fine: servirsi di un entertainment duro e puro per trasmettere un messaggio importante. E’alla fine un messaggio sensato, propositivo, perché mette in relazione l’età adulta con il buon senso e non con la rinuncia, invitando a preservare la libertà di scelta nella ricerca dell’equilibrio. In questa missione il regista ha dalla sua, e lo si nota con piacere sin dai titoli di testa, un talento comico-critico da tenere d’occhio. Tante le risate, per merito di una regia effervescente servita da un montaggio di inesauribile vigore creativo. Perfetta gestione del ritmo anche nei passaggi martellanti e da videoclip, ineccepibile ricorso a leit motiv (l’accensione del pc, il fazzoletto, il confessionale…) con retrogusto satirico al vetriolo, padronanza del “controcampo” nelle sequenze di dialogo. A voler trovare una falla possiamo dire che la virata sul drammatico verso il finale, quando John approfondisce il rapporto con Esther e dunque se stesso, è abbastanza difficoltosa per quanto non stonata e comunque indispensabile. Il Levitt attore tiene amabilmente la scena sfoderando una faccia da schiaffi da competizione (forse è blasfemo definirlo il nuovo Walter Matthau), circondato da validissimi comprimari tra i quali si segnalano gli irresistibili genitori impersonati da Tony Danza e Glenne Headly. Diverso il discorso per la Moore, sul personaggio più dolente e sfaccettato, in qualche modo voce della coscienza. Buona l’opera prima, in attesa di conferme.

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