Doppio Gioco – Recensione
Dal romanzo Shadow Dancer (1998) di Tom Bradby, anche sceneggiatore. Siamo nel 1993. La nordirlandese Colette (Andrea Riseborough), giovane madre single, opera come terrorista nell’IRA insieme ai fratelli. Tale scelta di vita è dovuta al desiderio di espiare quanto avvenne vent’anni prima, quando fu indirettamente responsabile dell’uccisione del fratellino in uno scontro a fuoco. Un giorno, nel fuggire dopo un fallito attentato dinamitardo alla metro di Londra, Colette è catturata. A quel punto un agente dell’MI5, Mac (Clive Owen), le propone una via d’uscita per risparmiarsi 25 anni di carcere: diventare informatrice e spiare le mosse della propria famiglia a Belfast. Lei accetta, con tutte le conseguenze. Thriller drammatico di altissima classe, teso e coinvolgente, in cui la Storia ed il privato dei protagonisti convivono in un’armonia ineccepibile. Lo sguardo del regista James Marsh è risolutamente anti-commerciale ma non per questo anti-cinematografico, ponendo semmai in primo piano l’attenta lettura psicologica degli eventi rispetto ad una sterile esposizione. Mobile e partecipe, l’inquadratura insegue i personaggi consentendoci di camminare letteralmente accanto a loro e di respirare gli ambienti come raramente accade sul grande schermo. Vengono giustamente privilegiati i dettagli ravvicinati e in particolare i primi piani, specchio dell’anima che trascende qualsiasi contesto cronologico e sociale. Nelle sequenze più movimentate si fa invece apprezzare il ricorso ad un alternanza con i campi lunghi, vedi il palpitante avvio nella metro londinese. Tempi narrativi calibrati al secondo per un opera di ammirevole maturità stilistica, la cui potenza visiva e concettuale è direttamente proporzionale all’apparente lentezza. Contribuiscono al risultato le preformance di interpreti dal talento indiscutibile, tra i quali si fa notare una Riseborough contenuta e al tempo stesso carica di paura e dolore.