Escobar: Paradise Lost – Recensione
Uno dei titoli più attesi della sezione Gala del Festival di Roma è Escobar: Paradise Lost, opera prima del regista e attore Andrea Di Stefano interpretata da Benicio del Toro e Josh Hutcherson.
Sarà bene fugare ogni dubbio in apertura: il film non vuole essere la storia di Pablo Escobar, indiscusso re del narcotraffico in Colombia negli anni ‘80, ma si sofferma sugli ultimi giorni del più celebre trafficante di droga della storia prima della resa.
La vita di Escobar è mostrata solo in alcuni frammenti, vista attraverso gli occhi di Nick, un giovane surfer canadese che si reca in Colombia in cerca dell’onda perfetta e conosce la bella Maria. Perso dalla bellezza della ragazza, inizia a frequentarla ignorando che si tratta della nipote di Pablo Escobar. Affascinato sulle prime e poi sempre più terrorizzato, il ragazzo è attratto nell’orbita nefasta di Escobar mentre le autorità stringono attorno all’uomo una rete sempre più stretta.
Il film di Di Stefano ha senza dubbio il merito di gettare una nuova luce su una delle figure più controverse della storia recente colombiana ovvero Pablo Escobar, l’uomo che, grazie a un’immensa fortuna accumulata col suo personale impero fondato sul traffico di droga, ha tenuto sotto scacco un intero paese (al suo apogeo negli anni ‘80 esportava 15 tonnellate di cocaina al giorno). Il cartello di Medellín controllava il 90 per cento del traffico di cocaina in America ed Escobar nel 1984 era considerato uno dei sei uomini più ricchi del mondo.
Vicino ai potenti e allo stesso tempo vicino al popolo. Nell’82 si era fatto eleggere deputato per avere protezione nei suoi traffici, e, una volta scaricato dalla casta politica nell’89 fa assassinare tre candidati alla presidenza. Contemporaneamente elargisce denaro ai più poveri, si adopera per far avere case ai meno abbienti e promuove l’edificazione di ospedali e scuole.
Merito del film è far venir fuori la doppia faccia di Escobar: quella di mostro e quella di buono. Un culto quasi maniacale per la famiglia (totale la reverenza alla madre), buon padre di famiglia che ama raccontare le favole ai figli da un lato e spietato criminale dall’altro. Perfettamente ricostruita è la sua famosa casa a Medellín, un vero parco dei divertimenti (che qualcuno ha accostato alla famosa Neverland di Michael Jackson) dove dava sfogo alle sue passioni per il calcio e per i cartoni animati di Walt Disney (famosa quella per il Mowgli de Il libro della giungla). Un vero lavoro di documentazione ha preceduto le riprese del film: dossier, atti processuali, articoli, ma anche filmini di famiglia (dove appunto lo si vedeva prendere il microfono e cantare e come in una scena del film).
Escobar: Paradise Lost è diviso in due parti: una prima più confusa composta da salti avanti e indietro negli anni con l’arrivo del giovane Nick in Colombia e una seconda dove l’azione prende il sopravvento con una drammatica caccia all’uomo.
Il film è capace di rendere la banalità del male filtrata attraverso lo sguardo di un estraneo al mondo criminale che finisce per restarne prigioniero.
Emblematico il fatto che Escobar legga Il libro della giungla alla figlia mentre al telefono, in una drammatica resa dei conti, invita la sua vittima Nick a riflettere sulla fine del libro: sulla necessità per il protagonista di tornare al villaggio degli uomini abbandonando i vecchi amici della giungla. Fiducia, tradimenti, incontri fatali, seduzione del male, percorrono efficacemente come una corrente sotterranea tutto il film anche se la ripetizione di simboli cristologici (che raggiunge il suo culmine nelle scene finali) è francamente troppo insistita e un po’ retorica.
Di Stefano (anche sceneggiatore) opta per una regia classica, fin troppo canonica, piana e priva di particolari trovate ma soprattutto preoccupata di arrivare al grande pubblico (con un materiale così tra le mani forse si poteva azzardare qualcosa in più). Certo, l’interpretazione di Benicio Del Toro giganteggia per tutto il film (a maggior ragione se si pensa che uno stesso attore ha saputo infondere uguale credibilità, intensità e potenza drammaturgica a due figure-simbolo contrapposte dell’America Latina, Che Guevara e Pablo Escobar). Accanto a lui non sfigura il giovane Josh Hutcherson che finalmente ha l’occasione di mostrare il suo talento, libero dal ruolo che gli ha dato la fama di Peeta Melik nella saga di Hunger Games e di rendere alla perfezione il ritratto di un agnello sacrificale dalla strada segnata.
Dispiace solo sottolineare ancora una volta che in un’opera interessante anche se non priva di difetti, non abbia creduto nessun produttore italiano (il film è prodotto dai francesi) e che i progetti più stimolanti continuino a trovare realizzazione fuori dall’Italia. Anche quando dietro alla macchina da presa c’è un promettente neoregista italiano.
Elena Bartoni