Foxcatcher – Recensione
Presentato al Festival di Cannes 2014, dopo il deludente Moneyball – L’arte di vincere (2011), Bennet Miller ritorna a parlare di sport sul grande schermo e lo fa ancora una volta dando spazio ai sentimenti, ma spingendosi oltre, fino alle radici della cultura americana, perché Foxcatcher è per eccellenza il film simbolo degli Usa.
I protagonisti sono il campione olimpico di lotta Mark Schultz (Channing Tatum), che viene contattato da alcuni uomini del miliardario John Du Pont (Steve Carell), erede della dinastia di industriali, per dar vita ad un team di lottatori che gareggi alle Olimpiadi di Seul del 1988. Du Pont sarà il finanziatore e coach della squadra. Mark accetta per poter così costruirsi una propria carriera, lontana dal fratello maggiore, Dave (Mark Ruffalo) anch’egli campione. Presto però, si accorgerà che Du Pont soffre di disturbi psicologici.
Storia vera quella portata in scena da Bennet, con la sceneggiatura di Dan Futterman e E. Max Frye e quello costruito è un film che riesce a scavare nella psicologia dei protagonisti, sebbene essi, per statura, portamento e massa muscolare, riescano a celarla bene.
Mark è l’emblema dello sportivo americano, è laureato, grazie ad una borsa di studio come lottatore e come unica qualità, sembra avere le sue doti atletiche. Dietro quel corpo massiccio però, nasconde una fragilità interiore, ingenuità e timidezza, quelle sui cui fa leva Du Pont, un figlio di papà che mettendogli a disposizione una casa, una palestra e la possibilità di vincere da solo, senza l’ombra del fratello maggiore, lo seduce e convince.
Il miliardario interpretato da uno Steve Carell sensazionale, che nel suo attaccamento verso la madre e nei disturbi psicologici manifestati ricorda Norman Bates, si contrappone nettamente a Dave, fratello-padre di Mark, che sebbene compaia poco, è l’elemento che serve a dar ritmo ed azione al film.
La pecca attribuibile a Foxcatcher è infatti rappresentata dal suo andamento narrativo, che sebbene non sia cronachistico, come molti biopic e film “ispirati a fatti realmente accaduti” a volte hanno, a molti potrebbe non andare a genio: tante scene di lotta, sguardi all’orizzonte, movimenti lenti dei protagonisti e silenzi.
La pellicola però, che divide il pubblico tra amanti e haters, è senza dubbio un inno all’America e per questo maggiormente accettata, proprio dai connazionali. Le radici della concezione sportiva di Bennet e degli americani è infatti la chiave del successo del film. Un grazie doveroso è però per il cast, che ha ricevuto diverse nomination agli Oscar, su tutti Steve Carell e Mark Ruffalo, ma mozione speciale anche per Channing Tatum, che ha dimostrato di saperci fare anche in un ruolo diverso dal classico ‘danzereccio’ e comico.
Il colpo di scena finale è senza dubbio l’apice dello sviluppo narrativo, per un film che molto più di Moneyball-L’arte di vincere (2011), entra dentro i suoi protagonisti, ne evidenzia il loro malessere e li destruttura, sebbene non riesca a coinvolgere pienamente lo spettatore.
Alice Bianco