Good As You – Recensione
Good As You, l’acronimo di GAY, appunto.
Good As You, cioè “buoni come voi”, era lo slogan gridato dal movimento omosessuale durante le marce di protesta alla fine degli anni Sessanta.
Si capisce subito che siamo dalle parti della prima commedia gay tutta italiana.
Otto personaggi, rigorosamente in cifra pari, quattro uomini e quattro donne. Tutti omosessuali, più o meno, anche se qualcuno più consapevole e qualcun altro molto meno. Claudio e Adelchi, Silvia e Mara, Francesca e Marina, Marco e Nico si ritrovano alla stessa festa la notte di Capodanno. Complici l’alcool e l’atmosfera, aiutata da un improvviso black-out durante il brindisi, gli otto si ritrovano alle prese con un turbinio di confessioni inattese, segreti, gelosie, colpi di testa. Si accendono forti passioni e si formano quattro coppie. Nei mesi successivi, tradimenti, bugie, fughe, stravolgeranno i rapporti fra i protagonisti culminando in una festa mascherata a tema “le favole” in cui uno scambio di persone e di maschera darà luogo allo sfogo di diffidenze e paranoie, provocando la rottura delle coppie e anche delle amicizie. Ma forse resta loro un’ultima speranza che il destino (o il caso) decida di nuovo di metterci lo zampino.
Gioco delle coppie in salsa gay, frizzante e briosa commedia tratta dall’omonima commedia teatrale di Roberto Biondi, ecco servito il piatto, piccantino quanto basta, di Good As You.
Il desiderio confessato dal regista Mariano Lamberti era di fare qualcosa di nuovo gettando uno sguardo non “sul” mondo gay ma “dal” mondo gay. Un intento che può dirsi riuscito.
Ed ecco un variopinto teatrino animato da personaggi-maschera, consapevoli di esserlo, che, proprio in una delle scene più eloquenti del film (una festa in piscina), finiscono per indossare realmente delle maschere e confessare nevrosi sentimentali, tradimenti, frustrazioni. Certo, i cliché ci sono, ma quale commedia, a pensarci bene, non ne ha? E poi il fine è proprio quello dichiarato di voler giocare con gli stereotipi. Anzi, in qualche caso rivendicandolo addirittura con orgoglio. Due personaggi su tutti sembrano giocare volutamente e consapevolmente con lo stereotipo estremo, la lesbica “butch” (il maschiaccio per intenderci) e il gay-gay, interpretati dagli attori migliori del film: Elisa Di Eusanio (alle spalle un’importante palestra nel teatro) e Diego Longobardi (animatore e direttore artistico delle notti romane di “Muccassassina”).
Il film rappresenta, con una certa dose di leggerezza mista a disincanto, il caos colorato, un po’ folle e sfasato della realtà delle relazioni omosessuali. La “caotica normalità” in cui vivono le coppie gay mostra le unioni così come sono davvero, senza giudizi precostituiti. I problemi, le ansie, le paure, le speranze in fondo sono le stesse quando si parla di sentimenti. La ricerca della felicità è universale, gay o etero che sia l’orientamento sessuale.
Ciliegina sulla torta, i colorati (neanche a dirlo) titoli di testa con la canzone “The Lady in the tutti frutti hat” successo di Carmen Miranda degli anni Quaranta, qui cantato dalle gemelle Kessler.
Tutti i colori dell’amore, appunto. E la locandina arcobaleno che campeggia per le strade sta lì a dimostrarlo.
Elena Bartoni