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Good Kill – Recensione

Guerra, traffico di armi e droga, questi i problemi sociopolitici ai quali da sempre si interessa Andrew Niccol, che anche questa volta ambienta la pellicola in un universo tecnologico, dove nonostante siano i droni a compiere la guerra, sono le persone i veri combattenti. Questo è il terzo film che vede la collaborazione di Niccol con Ethan Hawke (Gattaca-La porta dell’universo, 1997  e Lord of War, 2005) e, parlando di politica ed etica, finisce per far riflettere lo spettatore, arrivando anche ad infastidirlo.

Un padre di famiglia, il maggiore dell’aviazione Tommy Egan (Ethan Hawke) fa di mestiere il pilota di droni. Opera da un campo base di Las Vegas e, quando comincia a riflettere sul senso delle proprie azioni e della guerra contro i talebani che combatte a distanza, entra in crisi e mette in discussione la propria esistenza.

Good Kill, che tradotto in italiano significa ‘’Bel colpo’’, è l’espressione che gli aviatori americani usano dopo aver annientato il loro target prescelto. Mirino puntato verso i territori dove le cellule islamiche sono attive, l’esercito ha come missione patriottica quella di salvare i propri soldati ed eliminare, con poca pietà, i nemici.

Chi è però il nemico? Chi ha iniziato per primo questa guerra? Chi sono i terroristi? Questi i quesiti che fin da subito Niccol pone allo spettatore e attraverso i pensieri e i comportamenti dei protagonisti. Il personaggio interpretato da Hawke, è un ex pilota di caccia, dopo aver rinunciato a volare, è costretto a stare quotidianamente e letteralmente rinchiuso in una cabina di pilotaggio ancorata a terra ed attraverso dei droni aerei, come fossero delle telecamere, osserva, a mo’ di Grande Fratello, le popolazioni islamiche.

Afghanistan come Las Vegas, i nemici sembrano essere fatalmente uniti da un’ambientazione comune, il deserto, come se agli statunitensi, che lo stesso maggiore definisce codardi per non combattere sul posto, bensì a distanza, così si sentissero più vicini ai territori che formano questo teatro di guerra.

Guerra che pone al centro i concetti di protezione, aiuto, voglia di uccidere e giustizia. Temi e pensieri che vengono posti in essere dagli stessi aviatori (il maggiore e la soldatessa interpretata da Zoe Kravitz), ogni giorno impegnati, come fossero degli automi, ad eseguire ordini, costretti a lasciar perdere le proprie volontà, i sentimenti e i valori in cui credono, come per esempio la libertà, che è probabilmente ciò che è più legato al concetto di volare (desiderato dal protagonista), la fedeltà, al proprio lavoro, così come alla propria famiglia ed infine la giustizia, anche se questa sembra venir meno negli istanti finali.

La giustizia nel film, è quel valore che viene più bistrattato, assieme ai concetti di realtà e finzione. La scelta del regista di costruire i ruoli dei protagonisti, facendogli dire determinate cose, sembrano infatti contro le decisioni politiche del Congresso americano e fanno riflettere su ciò che sia veramente giusto o no. Realtà e finzione sono anche essi messi in discussione fin dall’inizio; pilotare droni viene paragonato al giocare con un videogame, a differenziarli, una responsabilità di fondo, quella che induce Egan a desistere.

Se, come precisato da Niccol, l’intento della pellicola non era quello di creare reazioni politiche, o meglio, giudicare e cercare delle risposte, risulta normale però, riflettere sull’operato dell’esercito, sull’utilizzo dei mezzi aerei per combattere e sulla reale utilità di essi.

Proprio per questi motivi, il film, accolto a Venezia da pareri contrastanti, potrà convincere o meno il pubblico. Molto dipende dall’interpretazione e dalla capacità di coinvolgimento del singolo spettatore, c’è infatti chi grida alla troppa retorica, chi apprezza invece il coraggio e la modalità con cui Niccol ha voluto raccontare l’America nazionalista, dopo l’11 settembre. Questo, sommato ad una buona regia e alla classica capacità del cineasta di insinuare domande nella mente dello spettatore, regalano un buon risultato.

Alice Bianco

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