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Grace di Monaco – Recensione

La principessa più celebre e amata del secolo scorso, la splendida diva che lasciò il mondo del cinema per sposare il principe Ranieri e divenire Sua Altezza Serenissima del secondo più piccolo stato sovrano del mondo, Grace (o come la chiamavano i suoi amici Gracie) di Monaco è la protagonista del film di Olivier Dahan che è stato scelto per aprire la 67ma edizione del Festival di Cannes.
La pellicola sceglie di concentrarsi su un solo anno nella storia della vita di Grace, il 1962, un anno cruciale che la mise alla prova nel suo ruolo di madre, moglie, principessa ma anche ex attrice.
Nel dicembre 1961, Alfred Hitchcock va a trovare la sua musa per proporle il ritorno al cinema, ha con sé il copione di un nuovo film, Marnie. Grace è tentata, quello script che legge di notte distesa sul letto, la attrae come una calamita. Ma, mentre riflette sull’offerta di Hitch, la principessa viene coinvolta nella delicata fase di crisi politica che attraversa il Principato le cui casse sono da tempo vuote. L’ingerenza del presidente francese De Gaulle minaccia di imporre il sistema fiscale francese al Principato e di annettersi Monaco con l’uso della forza. La Francia, impegnata in quell’anno nella guerra d’Algeria, ha bisogno di denaro per far fronte al gravoso impegno bellico. La crisi internazionale che ne deriva e l’imminente invasione del Principato da parte della Francia rappresentano una minaccia per la famiglia di Grace ma anche per il suo Paese e per la sua vita privata. E proprio in quel momento l’ex diva di Hollywood deve prendere una decisione cruciale: tornare alla sua vita di star del cinema o assumere a pieno titolo il ruolo di principessa adempiendo ai doveri nei confronti della sua famiglia e della sua nuova patria.     
Non è casuale che per l’apertura e la chiusura del film, Dahan scelga il set di un film: come dire la quintessenza, l’anima, la vera natura, il sogno vissuto in tutta la sua gloria e poi abbandonato in nome di un senso del dovere più alto. L’incipit vede Grace Kelly nel 1956, quando, applaudita e ammirata, lascia il set di quello che sarebbe stato il suo ultimo film: è inquadrata solo di spalle, procede con andatura flessuosa e già regale accompagnata da due assistenti che le tengono alcuni dei numerosi omaggi floreali. La fine la vede di nuovo su un set cinematografico: Un sogno? Un rimpianto figlio di un grande sacrificio? Una visione?
Grace scelse di occuparsi a pieno titolo della sua famiglia e della sua nuova patria, una terra che da sempre è simbolo di libertà e che per lei significò la rinuncia alla sua passione per l’espressione artistica. La scelta che si trovò a dover fare era tornare sul set a interpretare una “ladra frigida e compulsiva” (come definisce lei stessa Marnie dopo averne letto il copione) o ricoprire un ruolo di primo piano in un altro set, su una scena tutta reale anche se ricoperta dalla patina della favola. E proprio la favola è il perno su cui il regista fa ruotare il film, aprendo con una frase della stessa Grace a tutto schermo: “La vera favola è credere che la mia vita sia una favola”.
Storia romanzata o vera che sia, come si è tenuto a precisare dalla didascalia di apertura (“The following events are a fictional account inspired by real events”), il film è soprattutto una parabola sull’eterno scontro tra Ragion di Stato e vita privata, sulla difficoltà dei grandi poteri che implicano responsabilità dal peso enorme. La presa di distanza del regista che ha voluto evidenziare l’importanza di quel verbo, “ispirato”, non ha salvato il film dalle polemiche che ha sollevato in casa Grimaldi, tanto che gli eredi della dinastia hanno contestato la pellicola, ritenendola traditrice della storia dei loro genitori e tenendosi polemicamente lontani dal pur vicino Festival di Cannes.
Tra le cose più riuscite di un film in cui Dahan convince meno del suo precedente biopic su Edith Piaf (La vie en rose) lasciandolo troppo sospeso tra melò, dramma storico e favola (con tanto di intrighi di palazzo veri o presunti tali), c’è la grande interpretazione di Nicole Kidman. La diva questa volta torna a convincere, e, con un viso meno deformato dal botox, a trasudare intensità emotiva mista a grande aderenza fisica alla diva-principessa. Accanto a lei, dispiace vedere figurine un po’ sbiadite come Ranieri-Tim Roth e Maria Callas-Paz Vega.
Tra gli altri punti a favore ci sono alcuni colpi “cinematografici” assestati qua e là come l’incontro iniziale con Hitchcock (che vede la sua attrice già stanca dopo soli sei anni di matrimonio reale), e il consiglio finale del mago del brivido che, preso atto della rinuncia definitiva di Grace a Marnie e alla carriera di attrice, le consiglia di “non tenersi troppo sull’orlo del fuoricampo” (“The end of the frame”).
In un ripetuto gioco tra cinema e vita vera, finzione e realtà, Dahan propone la sua personale chiave di lettura della storia di un mito inossidabile, mostrando una Grace che, tenendosi sempre “al centro” della scena monegasca, conciliando l’impegno per salvare il Principato con quello per rinsaldare il suo matrimonio, alla fine scelse di interpretare, come le consigliò il suo fedele confidente monsignor Francis Tucker (un bravo Frank Langella), il più bel ruolo della sua vita. E anche il più difficile.

Elena Bartoni
 

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