Il fondamentalista riluttante – Recensione (2)
Una grande storia di mondi diversi. Ma soprattutto un’importante denuncia, un dito puntato non su fondamentalismi o estremismi (che siamo tutti pronti a condannare) ma più semplicemente sul pregiudizio, sulla cultura del sospetto, su quello sguardo miope che si nasconde dietro la diffidenza.
La storia ha inizio nel 2010 in Pakistan durante lo svolgimento delle manifestazioni studentesche a Lahore. Un giovane pachistano, il professor Changez Khan (Riz Ahmed), viene intervistato dal giornalista americano Bobby Lincoln (Liev Schreiber). Changez racconta il suo passato: dopo aver studiato a Princeton, era stato assunto come analista finanziario di un’importante società di consulenza, la Underwood Samson. Il giovane racconta del luminoso futuro che aveva davanti, del suo mentore che aveva creduto sulle sue qualità professionali Jim Cross (Kiefer Sutherland) e dell’artista fotografica Erica (Kate Hudson) della quale si era innamorato e con la quale aveva un progetto di vita insieme. Ma dopo l’11 settembre 2001 Changez inizia a essere trattato con senso di alienazione e sospetto, tanto da rendergli la vita difficile fino a fargli prendere la decisione di tornare nella sua terra d’origine. Lì il suo carisma e la sua intelligenza lo avevano fatto diventare un leader sia agli occhi degli studenti, sia agli occhi del governo americano che lo sospetta di essere un collaboratore di un gruppo integralista islamico. L’incontro tra il giornalista americano e il professore pachistano lascia spazio alla vera ragione della chiacchierata: un professore straniero è appena stato rapito dagli estremisti e sta per essere giustiziato.
Tratto dal romanzo di Mohsin Hamid, bestseller internazionale tradotto in 25 lingue, il film tocca temi importanti con lo sguardo lucido di una regista cresciuta fra due mondi e due culture. La storia umana e professionale di Mira Nair fa infatti da pendant perfetto alla vicenda dell’autore del romanzo. La regista è nata in India, ha studiato a Delhi e ad Harvard e poi si è trasferita a New York; Hamid è cresciuto a Lahore, ha frequentato l’Università di Princeton e la Harvard Law School, ha vissuto a Londra per poi tornare a Lahore e vivere tra il Pakistan, New York e Londra.
“Giannizzero” moderno, soldato forzatamente arruolato e istruito alle regole di un’altra religione, Changez non si rende conto di far parte di un esercito d’assalto di una guerra economica globale, combattuta al servizio degli Stati Uniti. E poi ecco la cesura, la data spartiacque, quell’undici settembre dopo il quale il mondo non sarà più lo stesso. La sua infallibilità sul lavoro cala, il suo aspetto muta, la barba cresce per aperta scelta che fa tanto “senso di appartenenza” e lo rende agli occhi degli americani un “arabo” quindi un potenziale terrorista. Di pari passo alla cultura della paura, New York si lascia andare a una prepotente volontà di potenza.
Un po’ racconto di formazione, un po’ thriller politico, il film è soprattutto un “elegante gioco mentale” come lo ha definito la stessa regista. Gioco che, nelle mani della Nair, diventa anche analisi del concetto di fondamentalismo (inteso come “concentrarsi sui fondamenti”) nelle sue diverse forme: sistemi di credenze basate sui propri fondamenti che ignorano i punti di vista di coloro che non condividono le loro opinioni. Come il “fondamentalismo economico” praticato dalla società di analisi finanziaria che rappresenta il concetto di “profitto a tutti i costi”, per cui il fine giustifica sempre i mezzi, o come il “fondamentalismo politico”, inteso come lato oscuro dell’estremismo, anche in una variante “riluttante” verso cui si sospetta sia andato il protagonista.
La storia è quella di un conflitto interiore, un’identità lacerata tra volontà di successo personale e professionale e l’orgoglio di appartenere a una nazione, a una cultura, a una religione, la storia di un “esercizio di guarigione e riconnessione personale”.
Il film è girato con mano sensibile e con occhio acuto dalla Nair che sfrutta al massimo fascino di luoghi diversi come Lahore, New York ma soprattutto Istanbul, emblematico luogo di passaggio tra Oriente e Occidente, soglia, limite, ma soprattutto città transcontinentale, metropoli dai due volti, come divisa tra due mondi è l’anima del protagonista.
Quanto agli attori, felice si è rivelata la scelta di Riz Ahmed, perfetto nel ruolo di giovane giannizzero che vede crescere in sé un senso di frustrazione e rabbia, che vede sbriciolare le sue certezze di “self made man” (eccezionale la scena in cui in piedi in una stanza d’albergo osserva la distruzione delle torri gemelle descrivendo la sua reazione di terrore misto ad ammirazione), ben affiancato da Liev Schreiber, Kiefer Sutherland e Kate Hudson.
“Preferisco i film che fanno dimenticare i problemi del mondo” dice alla moglie il professore americano che poco dopo sarà rapito uscendo da un cinema di Lahore nella prima scena, una frase che molti spettatori sottoscriverebbero in pieno. Un film come questo fa il contrario, ma lo fa intrattenendo ed emozionando per due ore abbondanti, facendo capire che non c’è solo l’America delle grandi opportunità ma ce n’è una che, dopo la ferita dell’11 settembre, realizza l’impossibilità di un’integrazione, come se le colpe di pochi diventassero quelle di tutti i cittadini di una fetta lontana di mondo. Un’opera da vedere, che colpisce nel profondo, come gli occhi scuri del suo fiero protagonista.
Elena Bartoni