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Il medico di campagna – Recensione

Una figura quasi eroica, ma di un eroismo tutto particolare e solitario, una specie in via d’estinzione. Il medico di campagna è da sempre stata una figura circondata da un’aura speciale che ha dato vita a storie e leggende di tutti i tipi diventando un ‘topos’ prima di tutto letterario.
Il protagonista del terzo lungometraggio del regista francese Thomas Lilti, Jean-Pierre Werner è un medico della campagna francese particolarmente dedito alla sua professione. Dal momento che gli viene diagnosticato un tumore al cervello, Jean-Pierre accetta controvoglia di essere affiancato da Nathalie Delezia, che esercita la professione medica da poco tempo e che ha lasciato l’ospedale dove lavora. Ma Jean-Pierre è restio ad affidare i suoi pazienti ad altri e la collaborazione tra i due si rivela difficile. Oltretutto Nathalie deve anche affrontare la reticenza di molti malati che non vogliono essere visitati da un altro medico. Col passare delle settimane però, paziente dopo paziente, Jean-Pierre imparerà a fidarsi della sua collaboratrice e ad apprezzarne le doti umane.

La seconda volta del regista Thomas Lilti nel mondo dei medici. Dopo Hippocrate (inedito in Italia), lungometraggio semi-autobiografico diretto dal regista (ex medico) nel 2014 che raccontava l’ambiente ospedaliero, Lilti torna a parlare della difficile professione medica con la storia di questo dottore di campagna.
Jean-Pierre è un medico cocciuto, consapevole della sua grande esperienza, un uomo che non ama che altri decidano al suo posto. Dopo la scoperta di una brutta malattia, il protagonista è costretto ad accettare un aiuto e la storia diventa quella di un rito di iniziazione per una non più giovane dottoressa che deve dimostrare la sua competenza ‘sul campo’. Nathalie è una donna forte delle sue esperienze di vita e non timorosa di misurarsi con una nuova sfida professionale che la porta in qualche modo a ricominciare da zero (è un’ex infermiera che ha deciso di riprendere gli studi per diventare medico). Jean-Pierre è un uomo solitario, che macina ogni giorno chilometri su chilometri per le strade di campagna per visitare a domicilio i pazienti, un professionista dedito al proprio dovere capace di accantonare i propri problemi di salute per dedicarsi agli altri (magari ce ne fossero oggi di medici così!). Un dottore maturo (che fa da contraltare al giovane medico di Hippocrate) costretto a confrontarsi con le decisioni di una collega (lui burbero e abituato a far sempre di testa sua), Werner è una specie antica e in via d’estinzione: quella del medico di campagna pronto ad accorrere giorno e notte per le emergenze dei suoi pazienti.
Marcata è la dimensione sociale e politica nel film, capace di presentare una realtà realistica ben documentata, come ad esempio quella del gruppo di giovani affetti da deficit intellettivo. Una vena di nostalgia percorre Il medico di campagna, una nostalgia per quel tanto di umanità e per quella ‘funzione sociale’ della professione che va perdendosi sempre più nel mondo di oggi: un medico che è anche complice, confidente, un uomo che funge anche da raccordo tra le persone di una comunità.
L’ambiente rurale è efficacemente dipinto, con i suoi rituali e le sue abitudini restie a cedere alla modernità (la scena della festa locale è in questo senso perfetta nel rendere un genuino senso di appartenenza), ma non si tralasciano neanche problematiche politiche come quella dei “deserti della sanità” nelle campagne o del diritto dei malati di morire a casa propria.
Un film asciutto, privo di inutili sentimentalismi o scene ad effetto (la paura della morte è solo elegantemente suggerita), essenziale nella sua dimensione tutta umana che non sconfina mai nel melodramma, capace di mantenersi in equilibrio sul confine delicato tra dramma e commedia. Un delicato affresco di una professione antica e nobile, interpretato da un grande François Cluzet (attore dalla lunga carriera che il grande pubblico ricorderà soprattutto per la memorabile prova offerta nei panni del tetraplegico protagonista di Quasi amici) che offre il suo volto espressivo nella sua compostezza al medico di campagna. Accanto a lui non sfigura Marianne Denicourt che regala una prova matura e convincente, carica di emotività contenuta.
Una citazione ‘ad hoc’ chiude il film con il protagonista che regala alla sua collaboratrice una copia dei “Racconti di un giovane medico” di Michail Bulgakov. Attraverso il giovane medico messo a capo di un piccolo ospedale di campagna protagonista dei racconti scritti dall’autore russo nel 1917 e il maturo medico di campagna di Lilti del terzo millennio passa il senso di una professione unica e senza tempo, una ‘missione’ dall’alto valore sociale e umano prima ancora che scientifico.

Elena Bartoni
 

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