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Il ragazzo invisibile – Recensione

Un supereroe tutto italiano. Il primo a uscire sugli schermi in un periodo cinematograficamente difficile come il Natale e con la regia di un premio Oscar.
Il ragazzo invisibile firmato Salvatores si chiama Michele, ha 14 anni e vive a Trieste con la mamma Giovanna, poliziotta single (il marito, anche lui poliziotto, è morto prematuramente). A scuola non è popolare, non brilla nello studio, non eccelle negli sport. Ma a lui in fondo non importa. A Michele basterebbe avere l’attenzione di Stella, una sua compagna di classe. Eppure ha la sensazione che lei proprio non si accorga di lui. Ma ecco che un giorno il succedersi monotono delle giornate viene interrotto da una scoperta straordinaria: Michele si guarda allo specchio e si scopre invisibile. La più incredibile avventura della sua vita ha inizio. 
Un film di Natale per tutti che non è una commedia ma un film fantasy che parla di un superore mai visto prima. Una novità assoluta, che rompe con le tradizioni del cinema italiano (che ha finora ignorato il genere).
Il tema di fondo di questo che, solo in apparenza, può apparire come un film per ragazzi, è un’idea tanto cara a Salvatores da anni, l’esistenza di una dimensione parallela da cui fare avanti e indietro. Un doppio, una maschera, che permette un passaggio tra due dimensioni.
Da anni affascinato dall’adolescenza (negli ultimi anni ha girato tre film con protagonisti adolescenti) proprio per il suo essere età di passaggio, una specie di porta che si apre su dimensioni diverse, il regista si affida questa volta a una storia nata da un’idea del produttore Nicola Giuliano (desideroso di fare un film che finalmente potesse condividere con i suoi figli) scritta dal trio di sceneggiatori Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi, Stefano Sardo.
Il fatto che il superpotere di cui è dotato il protagonista sia l’invisibilità la dice lunga sul piano metaforico.  
Salvatores dimostra di saper giocare bene con il cinema supereroistico del quale gli americani sono maestri indiscussi. Ma è anche vero che qui, più che giocare, si rilegge con una sensibilità tutta europea l’idea stessa del superpotere: l’invisibilità non ti permette di volare, sfondare palazzi o altro, ti fa semplicemente sparire. Per questo il regista lo ha definito “superpotere dell’anima”: un potere più psicologico di altri, di cui si scopre dotato un ragazzino che attraversa l’età più delicata che ci sia. Se si pensa che l’adolescenza è la fase della vita caratterizzata spesso da grande insicurezza e al contempo da massimo narcisismo (si vuole emergere e allo stesso tempo talvolta sparire), essere invisibili appare allo stesso tempo un desiderio e una paura.
Il viaggio dell’eroe è allora percorso di formazione che cerca di rispondere alle classiche domande: chi siamo? di chi siamo figli? di chi possiamo fidarci? quali sono i nostri talenti?
Ma Salvatores riesce a fare anche di più, facendo coincidere la sua storia di iniziazione con lo schema tipico dei “riti di passaggio”: distacco, sospensione, reintegrazione. Il percorso compiuto dal suo protagonista ruota attorno a una “liminalità”, una zona di transito (non è casuale la scelta di ambientare la storia a Trieste città italiana ‘mitteleuropea’ e di confine), di passaggio, di cui peraltro il cinema (soprattutto il filone supereroistico) ha sempre dato conto. Come nella maggior parte dei “riti di passaggio” raccontati sul grande schermo, anche qui tutto si svolge nell’adolescenza, età in cui il corpo si fa veicolo della trasformazione (perfetto esempio di questa mutazione è il primo Spider-Man di Sam Raimi in cui Peter Parker viene punto da un ragno). 
Anche sul fronte effetti speciali si è agito con mano e sensibilità europea, ricercando non dei ‘super effetti’ ma rendendo quanto più credibile qualcosa di magico. Niente ‘effettoni’ strabilianti ma solo  ‘meraviglia’ intesa nel senso più genuino del termine. L’immaginario ricreato è di stampo autenticamente fumettistico (vera passione di Salvatores) e gli omaggi al cinema di genere sono molteplici: si parte da Gremlins, e si arriva al soft horror romantico di Lasciami entrare di Tomas Alfredson (citazione apertamente confessata da Salvatores), passando per Spider Man e X-Men.
Il pregio maggiore de Il ragazzo invisibile risiede nella perfetta resa della realtà dei sentimenti e dei rapporti umani, prestando molta attenzione alla psicologia dei personaggi ed evitando il rischio di smarrimento nell’aspetto magico grazie a una sceneggiatura solida e curata e a scelte estetiche precise.
Cinema e fumetto, una duplice passione quella di Salvatores per due espressioni artistiche che hanno molto in comune a partire dal fatto di essere entrambi racconti per immagini. Sia nel cinema che nel fumetto, ha sottolineato il regista, si ha infatti a disposizione solo “un quadratino”, sia essa la vignetta o l’inquadratura (ricordiamo che nel caso da Il ragazzo invisibile si è curiosamente seguito un percorso inverso dal solito, essendo l’eroe nato prima al cinema per poi ispirare un fumetto e un libro).  
Una cosa è certa, solo un cineasta colto, raffinato , sensibile, eclettico come Salvatores poteva tratteggiare un supereroe dell’anima e guardarlo con affetto e nostalgia per l’eterno adolescente che (fortunatamente) è ancora in lui.
Un tributo personale ai propri miti, o una linea di confine appena tratteggiata.
Realtà, fantasia, sogno, senso dell’attesa: un’ulteriore dimostrazione che cinema e adolescenza non sono poi così distanti. E il film di Salvatores è la prova che si può fare un cinema “adulto” per ragazzi e contribuire in modo nuovo a nutrire l’immaginario delle giovani generazioni.

Elena Bartoni
 

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