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In Another Country – Recensione

Una delle sorprese della settimana, “In Another Country” del regista Coreano Hong Sang-soo costruisce un film matrioska dove l’intrecciarsi di più storie, sempre recitate dagli stessi attori, pongono lo spettatore a doversi confrontare con una metafora della vita e delle sue scelte.

Anna è tre personaggi tutti interpretati magistralmente da Isabelle Huppert che visitano una dopo l’altra una stazione balneare in Corea, dormendo tutte nello stesso piccolo hotel. Incontreranno le stesse persone tra le quali spiccherà un simpatico bagnino.

Il film di Hong Sang-soo raccoglie all’interno moltissime riflessioni e tematiche come l’incontro tra la cultura occidentale ed orientale che portano alla crescita di tutti i personaggi. Ma non mancano le riflessioni sulla scrittura, sul cinema e sul ripetersi ciclicamente della vita e dei meccanismi intrinsechi che muovono questi tre elementi.

 Il regista vede questa zona costiera come un posto atemporale dove le tre donne, ognuna con caratteristiche fortemente diverse,  cambiano, si modificano, entrano in contatto con qualcosa di straniero e ne traggono beneficio. Tutte e tre si trovano ad un certo punto ad un bivio e, nonostante le indicazioni ricevute per raggiungere un tal posto, si trovano a dover fare una scelta: andare a destra o a sinistra. Chi vorrà vedere il faro non lo troverà, chi cerca altro se lo vedrà davanti e chi, davanti all’indicazione giusta per vederlo, decide all’ultimo di cambiare direzione. Queste scene altro non sono che una metafora più ampia della vita stessa a cui Hong Sang-soo ci mette davanti.

“In Another Country” è un film poetico, lontano dalla produzione tipica coreana, leggero e da maneggiare con cura per capirne tutte le sfumature più nascoste che ricordano più la Nouvelle Vague francese che il cinema orientale. Sì perché sia i dialoghi, le inquadrature fisse e poi zoomate e le riprese richiamano quel cinema francese di fine anni cinquanta. E proprio parlando di questo tipo di cinema che la Huppert risulta perfetta e a suo completo agio per il triplice ruolo affidatole.

Poetico nel mettere in scena i sentimenti e i turbamenti dei protagonisti, Hong si diverte molto a giocare anche sull’incomunicabilità sia del cuore che delle parole che qui prendono un significato rilevante e anche divertente.

Davanti ad una sceneggiatura così curata e a specchio ci si ritrova prima spiazzati e poi affascinati da una struttura narrativa che cambia pur rimanendo di fondo sempre uguale, che si ritrova in bilico tra la commedia piacevole e la riflessione teorica sulle importanti tematiche della vita.
Una somma di elementi che si rincorrono, il tradimento, la ricerca dell’amore e della pace fino agli oggetti come il faro e l’ombrello anche essi però da considerare dal punto di vista metaforico di meta e riparo, in una pellicola fortemente meta cinematografica che piacerà soprattutto al pubblico di nicchia e cinefilo.

Sara Prian

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