Jimmy P. – Recensione
Vera storia d’amicizia, reale percorso di conoscenza del proprio io e delle culture altrui, mentre sullo sfondo aleggia lo spettro della guerra, Jimmy P. pellicola presentata lo scorso anno al Festival di Cannes, è un’opera di estrema fattura registica, ma nulla più: gli anni ’50 e ’60 francesi di Truffaut rivivono sullo schermo, grazie alla maestria di Arnaud Desplechin.
Browning, Montana, 1948. Jimmy Picard (Benicio del Toro) è un nativo americano che vive e lavora nel ranch della sorella. Reduce della Seconda Guerra Mondiale è traumatizzato dall’esperienza al fronte in Europa e soffre di alcuni disturbi: la vista si offusca, il cuore accelera, il respiro si fa corto. Preoccupata per le condizioni del fratello, Gayle (Michelle Thrush) gli consiglia di farsi visitare nell’ospedale militare di Topeka. I medici chiedono un parere a Georges Devereux (Mathieu Amalric), antropologo e psicanalista ungherese, che studia la psicologia di culture diverse da quella occidentale. Georges individuerà il disagio psicosociale di Jimmy, infilando un percorso terapeutico e diventandone amico.
Il film ruota infatti proprio attorno al rapporto creatosi nella realtà, tra il terapeuta ungherese e il suo paziente: prima un rapporto di studio, sperimentazione e cura, poi d’amicizia.
Uomo d’azione uno (Picard), uomo di pensiero e conoscenza l’altro (Devereux), i due protagonisti agli antipodi, instaureranno un rapporto particolare. Attraverso i colloqui, nei quali l’antropologo chiama il suo paziente semplicemente Jimmy P., lo spettatore tenterà di capire a poco a poco quello strano indiano e soprattutto come il Freud/Devereux, sia l’unico in grado di comprenderlo.
“Il selvaggio West” come viene chiamato dagli stessi medici e che fa da sfondo al film, è rappresentato sia dal paesaggio dell’Arkansas, dov’è situato l’ospedale militare di Topeka, sia quello presente nei pensieri e nei ricordi polverosi, in tutti i sensi, che Picard rivela al proprio psicanalista amico, ma arida è anche la bocca amara dello spettatore, che man mano prova una sensazione di smarrimento sempre maggiore.
Progetto per nulla facile da portare sullo schermo, l’opera tratta dal libro scritto dallo stesso Devereux, Reality and Dream: Psychotherapy of a Plains Indian, l’opera di Desplechin si presenta come una cronologica ricostruzione della vita ombrosa e nascosta allo spettatore, del paziente Jimmy P., che però a lungo andare, diventa troppo morbosa ed onerosa da seguire.
Troppe le conversazioni tra i due, poca tensione nella struttura narrativa, piegata ai dialoghi e quasi assente dall’azione, la pellicola appare come un non finito, votata solamente alla celebrazione dei due veri protagonisti: Devereaux e Desplechin.
Nonostante quindi la brillante regia, da ricordare in particolar modo le scene iniziali, durante le visite psicofisiche a Picard, con speciali inquadrature soggettive a iris out e le intense interpretazioni di due mostri come Benicio del Toro e Mathieu Amalric, l’opera risulta troppo impegnativa, poco empatica e lascia distaccato il pubblico.
Alice Bianco