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La foresta di ghiaccio – Recensione

Un thriller ambientato tra i ghiacci alpini, La foresta di ghiaccio, è il film italiano presentato in concorso nell’ottava giornata del Festival di Roma nella sezione Cinema d’Oggi.
Secondo lungometraggio del regista romano Claudio Noce (il suo primo film Good Morning Aman vinse nel 2009 a Venezia il premio FICE per il miglior autore esordiente) il film racconta di un mistero che si sviluppa dietro l’apparente serenità di un piccolo paese alpino.
Nel prologo ambientato nel 1994 al confine tra Italia e Slovenia un bambino riesce a fuggire da un gruppo di profughi maltrattati da un violento capobanda.
Vent’anni dopo, e con una tempesta che incombe minacciosa, Pietro, un giovane tecnico specializzato, arriva in una valle del Trentino per riparare un guasto alla centrale elettrica con annessa diga in alta quota, e si trova improvvisamente di fronte ad una strana sparizione. Ben presto egli si scontra con due fratelli, Lorenzo e Secondo, che vivono e lavorano nella zona. Lorenzo, un uomo misterioso e coinvolto in loschi traffici con alcuni sloveni, aiuta Pietro a sistemare il guasto. Secondo invece vive seminascosto nella centrale elettrica e sembra celare più di un segreto.
Ma quando Pietro, col passare dei giorni, risale all’origine dei misteri nascosti nel cuore della valle, le tensioni esplodono e comincia un gioco di specchi deformanti in cui nessuno è immune dal sospetto, neppure Lana, la zoologa esperta di orsi che si aggira per il paese.
Una favola nera, cupa e ghiacciata, per cui il regista ha scelto come ambientazione le montagne del Trentino (nella Valle del Chiese) tra una fitta oscurità e i bagliori accecanti della candida neve. Un luogo, ha sottolineato il regista, “dove la natura è più forte della volontà e dei desideri dell’uomo, dove il dolore e il senso di colpa si fondono con l’urlo violento della tempesta”.
Il film vira fin dall’inizio in direzione thriller con evidenti sfumature noir. Ma qui arrivano le parti meno riuscite, il racconto si avviluppa attorno a una fitta rete di misteri e di figure losche ma, man mano che la storia procede, si moltiplicano i punti poco chiari, tanto che risulta sempre più difficile ricomporre i tasselli del complicato puzzle. 
L’energia primordiale di luoghi selvaggi e di grande fascino si sviluppa in un racconto disseminato di simboli: l’orso e il lupo, bestie selvagge e non addomesticabili, la diga che ha il compito di contenere una furia potenzialmente devastatrice, il generatore che si guasta ovvero l’energia vitale. Particolarmente forte, la simbologia legata al confine: la diga stessa è per antonomasia simbolo di divisione, che divide il tempo oltre che lo spazio. Uno spazio confine, come terra di confine è quella dove è ambientato il film. Protagoniste assolute della storia, le zone di frontiera e il loro fascino, dove lo spazio si fonde tra cielo e terra, “dove l’attesa si trasforma in bisogno”, come ha sottolineato il regista.
Passato e presente, notte e giorno, buio e luce. Così tutto si compie, e i peccati del passato verranno lavati dalle vendette del presente.
Ammirevole è l’innesto del tema dell’immigrazione che trova posto in un film noir e non in una pellicola che affronta tematiche sociali anche se, proprio sui loschi traffici tra Italia e Slovenia, non vengono chiariti alcuni passaggi-chiave e la rivelazione finale appare una fin troppo ovvia verità.
Buone le prove dei protagonisti, un’intensa Ksenia Rappoport cacciatrice di orsi in realtà poliziotta sotto copertura, un inquietante Emir Kusturica dal volto intenso e segnato dal freddo, quasi un ‘orco’ che vive in semi-isolamento sulla grande diga, un (finalmente) convincente Adriano Giannini nei panni di un uomo solitario e dedito all’alcool che sogna un’altra vita lontano, perso nel sogno di un Brasile esotico e soleggiato. Buona anche la prova di Domenico Diele nei panni del giovane tecnico Pietro, il cui passato nasconde più di un segreto.    
Ma, nonostante il cast, gli interessanti spunti tematici, e l’ambientazione ricca di fascino, il racconto mostra evidenti lacune: mancano indizi, particolari importanti, rivelazioni sorprendenti, e, dispiace osservarlo, nonostante la sceneggiatura a otto mani (scritta dal regista insieme a Francesca Manieri, Elisa Amoruso, Diego Ribon). E tra strane scomparse, misteriosi “carichi” in arrivo, segreti riposti nel passato, esplosioni di violenza, il film non riesce a tenere desta l’attenzione di chi guarda, smarrendo la bussola man mano che si avvicina al finale.
Opera sospesa tra pregi e difetti, La foresta di ghiaccio non convince fino in fondo proprio perché, un film che si vorrebbe definire thriller, non può perdersi in un intreccio narrativo privo di mordente e, cosa ancora più grave, di ritmo.

Elena Bartoni
 

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