La Gabbianella e il Gatto – Recensione
Più di due secoli fa, nel 1763, Voltaire, l’esponente più rappresentativo dell’Illuminismo francese, scrisse un pamphlet intitolato “Trattato sulla tolleranza” che voleva far comprendere come l’accettazione del principio di tolleranza e del rispetto di chi è solo apparentemente diverso da noi, stia alla base stessa dell’umano ragionare. Gran parte dei guai degli uomini, secondo lo spirito illuminato, deriverebbe proprio dall’intolleranza, oltre che dal fanatismo e dalla presunzione di possedere l’unica verità.
A noi, uomini del terzo millennio ben lontani dal “secolo dei lumi”, tali affermazioni potrebbero sembrare obsolete, ma ecco che una piccola favola a cartoni animati come La Gabbianella e il gatto appare sorprendentemente ricca di insegnamenti che non muoiono mai.
Non è forse vero che il petrolio, “l’onda nera” che gli uomini scaricano nel mare che uccide la povera gabbiana Kengah in procinto di depositare il suo uovo, è una “maledizione”? (Ahinoi se è vero!). Non è dunque vero, come dice il gatto Colonnello, che la povera Kengah è stata uccisa “dalla pazzia degli uomini”?
E non c’è forse in questo modo di agire la presunzione di voler possedere, prevaricare, “violentare”, qualcosa di non nostro come la natura?
Insomma, non c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui l’uomo agisce sull’ambiente, nel modo in cui va contro l’ecosistema in cui vive?
Sono davvero degli “spiriti illuminati” quei simpatici gattoni che vivono in un museo (abbandonato dalla stupidità degli uomini), consultano l’Enciclopedia quando hanno dei dubbi (non a caso uno di loro si chiama Diderot) e non esitano a prendersi cura di chi è diverso da loro, la gabbianella rimasta orfana, per l’appunto. E non si tirano indietro neanche quando devono impedire che un’orda di mostruosi toponi esca dalle fogne per impadronirsi del potere.
La piccola gabbiana, combatterà la minaccia a fianco degli amici gatti apprendendo così l’importanza del rispetto e della solidarietà. Inoltre, la tenera Fifì, prendendo coscienza di non essere un gatto, capirà un altro passaggio basilare della civiltà: che la conoscenza di noi stessi è la chiave per essere ciò che veramente siamo. E così imparerà a volare, in un duplice senso: reale e metaforico.
D’altronde, non è una scoperta di oggi che la capacità di produrre e trasmettere cultura non è solo una caratteristica umana, se è vero che la “cultura” è l’insieme dei moduli di comportamento di un gruppo sociale (di uomini o di animali) che sono trasmessi mediante apprendimento. Insomma, gli animali a cartoni animati del film sono più “illuminati” di noi uomini se sono capaci di dire alla loro figliola adottiva “ti vogliamo ancora più bene perché sei diversa da noi”.
Ed è triste vedere come la sola persona pronta ad aiutare i gatti nell’impresa di far volare il piccolo pennuto sia una bambina, l’unico umano, come dice un micione, “capace di capire che tutti gli esseri del mondo hanno un’anima, dei pensieri, dei sentimenti”.
Il grande favolista Jean de La Fontaine scrisse: “Mi servo degli animali per istruire gli uomini”, non aveva forse ragione?
Elena Bartoni