La Mia Classe – Recensione
Un misto tra film, documentario e backstage quello che Daniele Gaglianone costruisce con “La mia classe”, una pellicola intensa, divertente, originale e, soprattutto, intelligente.
Prendete una classe di cittadini stranieri che vivono in Italia e che vogliono imparare la nostra lingua guidati dall’insegnante Valerio Mastandrea. Questa è la trama, semplice e diretta, dove si costruiscono storie del passato, dove si racconta la propria vita e ci si confronta con una realtà complessa come quella dell’immigrazione.
Nel 2008 a Cannes Laurent Cantet si impose con il suo “La classe”, il film di Gaglianone, che abbiamo visto a Venezia come evento speciale delle giornate degli autori, si colloca sulla stessa lunghezza d’onda narrando una vicenda, a metà strada tra il reale e il fittizio, che ci tocca fortemente da vicino.
Gli immigrati fanno parte ormai dell’Italia e il regista qui ci racconta la situazione dal loro punto di vista, con le leggi che non li agevolano e il permesso di soggiorno che pende su di loro come una spada di Damocle. Scappano da una situazione disagiata nel loro paese, per trovarsi in uno Stato dove la gente, come dice la canzone che si sente durante il film, li guarda e passa avanti senza fare un cenno.
Gaglione fa riflettere anche chi guarda con sfiducia non solo lo straniero, ma anche il prossimo. “In Africa quando uno sale sul bus, saluta quello accanto, ci parla, qui sono tutti attenti a guardare il proprio telefono o a leggere il giornale, nessuno si parla più” racconta uno dei protagonisti.
Il cineasta non giudica, non punta il dito verso le istituzioni o verso le persone, almeno non in maniera esplicita, e lascia che siano le voci dei protagonisti a veicolare dei messaggi sinceri tanto quanto spontanei.
Perché l’idea di mischiare copione e canovaccio, battute scritte con frasi spontanee, permette di rendere ancora più diretto e reale il messaggio, oltre che esposto in maniera alquanto originale. Storie di finzione si intrecciano con quelle reali che, a volte, superano la fantasia dimostrandosi ancora più crude di quelle che la settima arte ha il coraggio di raccontare.
Ma se al cinema manca il coraggio di narrare vicende troppo umane, l’audacia non manca ai protagonisti che diventano simbolo per tutti quelli immigrati che pur cercando lavoro o lavorando non riescono ad avere la giusta accoglienza dall’Italia.
“Io qui non mi sento a casa”. In questa frase c’è implicato dietro un mondo di mille significati, che sta allo spettatore captare ed interiorizzare.
Gaglione racconta con intelligenza le storie di questa classe, rendendo partecipe il pubblico che finisce per amare questo gruppo di persone, perché dire personaggi, infatti, sarebbe un grande errore.
Portando sullo schermo l’intoppo di produzione quando uno degli immigrati si troverà nei guai, il regista fa qualcosa di più: si domanda quale potrebbe essere il ruolo del cinema nell’aiutare queste persone con un lavoro e se esso potrebbe fare la differenza. La crisi delle persone diventa quindi anche crisi del stesso regista che si trova con una produzione che non sa più se continuare o meno.
Tutti diventano simbolo e portavoce di un diritto al lavoro e alla dignità e per fare questo non servono tante immagini, bastano le loro voci e una telecamera che inquadri una storia raccontata dagli occhi.
Sara Prian