La Vita di Adele – Recensione
Arriva nelle sale italiane, in edizione integrale, “La vita di Adele”, il film vincitore dell’ultimo Festival di Cannes, che ha scatenato numerose polemiche per le scene di sesso esplicito tra le due protagoniste. Abdellatif Kechiche ci presenta una pellicola tecnicamente ineccepibile, ma che arranca nel parlare di amore, limitandosi al livello passionale ed esplorativo del rapporto a due.
Adele (Adèle Exarchopoulos) è un adolescente come tutte le altre che sta vivendo la sua prima storia d’amore con un ragazzo. Quando però incontra Emma (Léa Seydoux) le sue convinzioni iniziano a vacillare, provando una fortissima attrazione per la ragazza che la porterà a scoprire un lato di se stessa che non conosceva.
“Blue is the warmest colour” titolo inglese della pellicola, ben sottolinea l’importanza di questo colore all’interno del film.
Blu non solo è il rappresentante del principio femminile come da tradizione, ma ha anche, se vogliamo, un significato più favolistico. Per Adele, l’incontro con la ragazza dai capelli blu è come l’incontro con il proprio principe azzurro, quello dei sogni, l’unico che, come il colore, può riportare la calma dentro di lei e placare il turbinio di pensieri che la tormenta.
Adele è come Tiresia, la celebre figura della mitologia greca, che viene tramutato da uomo a donna e poi torna di nuovo uomo. La protagonista fa una sorta di percorso inverso, finendo poi per trovarsi in una complicata serie di relazioni senza capire bene a cosa appartenere veramente.
Il limite de “La vita di Adele” è il fatto di essere una pellicola, più di qualsiasi altra, fortemente soggettiva. Lo spettatore, infatti, potrà commuoversi ed essere coinvolto fino alle lacrime, oppure rimanerne solamente sfiorato; anche perché il sentimento delle due ragazze potrebbe risultare per molti solamente sospeso, mai sviluppato nella sua complessità introspettiva, limitandosi ad essere percepito come semplice attrazione sessuale.
Ciò è dovuto anche alle esplicite scene di sesso che non riescono a trasmettere amore, ma solo passione sfrenata e tra le due cose la differenza è molta.
In Adele, solo verso la fine, con le sue lacrime si può comprendere l’amore che prova per Emma, ma anche qui si può finire col confonderlo con l’ossessione verso un oggetto del desiderio. In fin dei conti lo si capisce ben presto: le due in comune hanno ben poco, quando Adele si trova in compagnia degli amici della sua ragazza si sente fuori posto, non sa di che cosa parlare e l’unica cosa che le riavvicina è poi il toccarsi, l’esplorarsi carnalmente più che nell’anima.
Kechiche fatica, infatti, a parlare d’amore in tutti i rapporti messi in scena sullo schermo. “La vita d’Adele” è, invece, un’opera sull’esplorazione sessuale, sul cercare il proprio posto nel mondo e sull’affermazione di se stessi e della libertà di essere quello che si vuole. La libertà, poi, intelligentemente, non riguarda solo l’aspetto sessuale, ma anche quello lavorativo, mettendo in primo piano le difficoltà delle scelte universitarie e post laurea, soprattutto di chi ha scelto facoltà artistiche.
Attraverso Emma, pittrice e studente alle Belle Arti, Kechiche rivendica la libertà dell’artista, la stessa libertà di espressione che poi espone nella sua pellicola esteticamente ineccepibile.
Purtroppo il punto debole de “La vita di Adele” è il distacco che potrebbe crearsi con lo spettatore a causa, non solo della lunghezza che di per sé è anche sopportabile, ma della ripetitività di molte situazioni e scene.
Un film soggettivo che verrà innalzato a capolavoro assoluto da alcuni, ma per altri finirà per essere l’esatto contrario.
Sara Prian